Mattina, macchina, traffico, canzoni che sfumano in sottofondo, uno sfumato fade-out che dura in maniera innaturale dall’inizio alla fine di ogni pezzo, non suono più un’immaginaria batteria, ho solo internamente una sorta di impulso ad “andare” ad “arrivare” alla meta. La macchina si fa stretta e arriva quasi a soffocarti, non mi è mai piaciuto il traffico ma non è questo il punto, nelle ultime mattine, in macchina ho forse il peggiore e più lungo tempo morto della giornata, dal suo inizio alla sua fine e neanche più la musica riesce a togliere via per un attimo la catatonica sensazione di saturazione.
Non so neanche se sia corretto definirla così questa sensazione di compressione interna che si sviluppa durante la giornata, ho la stesso smarrito incedere dal protagonista de “L’Arte del Sogno”, come lui mi trovo a comporre un calendario e come lui mi domando fin dove la realtà sia tale e dove cominci la fantasia, ciò che vorresti e ciò che non c’è e non ci sarà. Il lavoro dicono sia comodo per non pensare, in realtà il lavoro è il mezzo migliore per giungere il gradiente sufficiente di alienazione per non doverti più ricordare a tutti i costi chi sei, cosa sei e cosa vuoi, sopratutto quando questi interrogativi tornano ad avere un’eco che rimbomba solo nelle quattro pareti dei tuoi pensieri. La congenita capacità nell’incontrare persone giuste nei momenti sbagliati si propaga come una sorta di falla genetica nella mia vita, che ogni volta porta in seno il risultato del sapere solo fare e farmi danni in maniera millimetricamente precisa. L’effetto è così quello del domino, per cui caduta una tessera tutte quante iniziano a capitolare incessantemente, inesorabilmente, con un effetto di frustrante rassegnazione.
Ierisera mi sono trovato in palestra a correre come un criceto in tondo, nei pochi metri di spazio a disposizione. “Non stai bene? sei pallido”, mi hanno chiesto i ragazzi e si è aggiunto il senso di colpa verso di loro… Non so neanche io cosa abbia dentro da esser tirato fuori, so che stasera ho voglia di suonare, in acustico, lontano da “casa” e dalle mie cose, ho voglia di pensare a quel che ho da dire suonando e cantando, perchè è sempre stato un esercizio catartico… ho voglia di sentire il maledettissimo gusto di solitudine alla fine di un concerto… questa catatonia soffocante rischia di diventare una comoda giustificazione per troppe cose.
Devo tirar fuori… tutto.
La domanda, anche questa con il suo eco… con chi?