Venerdì sera a casa. Stop. Fine di una settimana particolarmente massacrante. Stop. Fine di un processo di apnea forzata che ti costringe a scontrarti con le cose, più che confrontarti. Stop. Passo.
Rimane flebile l’eco del sabato passato aggrappato alla balaustra della prima fila dell’Ossigeno, per ascoltare i Kula Shaker. Quando si accende la musica sono in mezzo ad uno dei miei elementi naturali, quando si accende la musica tutto non conta, tutto scompare e si annulla per essere convogliato verso di lei, verso quel che sa solleticare e suscitare.
Quando la musica finisce, però, il silenzio pesa doppiamente come un macigno.
Spingi meccanicamente i passi verso la tua macchina dopo esserti aggirato alla ricerca di “neanche-tu-sai-bene-chi-o-cosa”, li spingi per inerzia, per occupare attimi imbarazzanti in cui sai bene che potresti scontrarti con quella parte di te poco inclinea a lasciar andar via la cosa con una scrollata di spalle, liscia, tranquilla e indolore.
Forzi una settimana ad iniziare, ad andare avanti, a finire, guardando un orologio sperando che arrivino le 18.00, prendendo la piega routinaria di chi non si aspetta molte sorprese dalla propria vita. Mi scopro logorroico e chiacchierone sul treno e fuori, come avessi la necessità perenne di riempire i vuoti lasciati dagli altri, forse ho un problema con i vuoti.
Potremmo parlarne.
Parlare di come questo ben si leghi al mio problema con le vertigini e di come abbia cercato di esorcizzare questa paura passando una giornata intera sul tetto di casa a far lavori.
Ma infondo a chi gioverebbe?
A chi giovano le teorie che mi trovo a snocciolare davanti alle vite altrui o davanti (troppo spesso dietro) alla mia?
Edotti calici di cera fusa, consumata
da cosa?
dalle candele della presunta intelligenza
del presunto controllo.
Il controllo non esiste, esistono entropiche associazioni di idee che danno vita ai colori di cui la gente è così abile, nel bene e nel male, a circondarsi.
Il vivere le cose con la spontaneità necessaria mi fa sentire un alieno, un tappatore di buchi logorroico che serve solo a quietare la propria coscienza esterna.
Quella interna giace silenziosa.