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19 Settembre 2009
Apnea

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Apnea

Chiudi gli occhi, inspira/espira e senti il sapore dell’aria che ti circonda. Folate di afa calda sulla faccia, sudore che gronda prima ancora di muovere il passo deciso che senti sdrucciolare sulla ghiaia, il pungere sferzante dell’elettricità di un temporale che si avvicina, le gocce di pioggia che ti pungono la faccia, il sole che ti scava i muscoli ed appesantisce le caviglie.

Inizi sentieri senza certezze se non quelle che non sai dove ti porteranno, corri a memoria perché l’unica cosa di cui puoi fidarti sono le tue sensazioni, l’unica bussola che senti viene da dentro. C’è chi lo chiama cuore, c’è chi la chiama anima o fede. C’è chi non gli ha mai dato un nome e, come me, corre ad occhi chiusi in tutti questi percorsi che si snodano intersecano e accumulano esperienze nei tuoi muscoli, nella tua testa.

Scorri immagini con giochi di luce che vengono scanditi dai tronchi degli alberi, scorri immagini mentre alzi il tuo bicchiere di birra in un pub e senti sotto i tuoi piedi la moquette sudicia che per un attimo, non sai perché, ti rassicura. Flussi di parole si snodano e rimani ad osservarli come serpenti che cercano di ipnotizzarti, finisci per guardare con aria stanca quello che immagini avere attorno, mentre chi hai davanti si sta forse chiedendo dove sei realmente in quel momento.

Già, dove sei? Dove sono?

Non sono domande esistenziali i titoli di coda immaginari di ogni film che vive nella tua testa prima di chiudere gli occhi, sono scritte bianche su fondo nero che inesorabilmente ti portano a fare i conti con te stesso, con quello che hai e con quello che ogni giorno cerchi di ottenere per te stesso.

Apri gli occhi e senti il pavimento freddo sotto i piedi, ti ricorda che inizia un altro giorno, che anche oggi proverai a correre più veloce di una gazzella o di un leone o che, semplicemente, cercherai di tirare una riga su qualcuno dei titoli di coda alla fine della tua giornata. Anche quando ti sembra di incedere su un tapis roulant che non muta ciò che hai attorno, continui a spingere, ti inciti da solo che ce la devi fare, perché sai che puoi contare solo su te stesso e basta.

Pensi alle lampadine, allunghi la mano e ne spegni a decine ogni giorno, gesti semplici e meccanici finchè non ti rendi conto che una di queste non si vuole spegnere, una di queste è tre anni che è accesa e non si è mai spenta. L’hai odiata, l’hai voluta lontano da te affinchè non risaltasse con la sua luce le tue ombre, affinchè non ti mostrasse quanto in realtà la sua luce ti sapeva e sa scaldare, l’hai avuta vicino sapendo quanto fosse importante, quanto rappresentasse per te. Davanti a tutto ciò ti rassegni un po’ con un sorriso, un po’ con una voragine dentro, nella consapevolezza profonda che certe cose non cambiano e non cambieranno mai.

Deglutisci, lentamente, senti la fatica del compiere un gesto naturale, uno di quei gesti che assieme allo sbattere delle palpebre ed al respirare sono riflessi incondizionati. Sai che tutto è pesante e duro, sai che ti manca e ti mancherà, sai che il sentiero ora cambia per forza di cose e ti trovi ad andare avanti senza sapere, forse con un po’ di incoscienza.

La verità è che realizzi che non ti aspetti più nulla, lotti per te stesso con le unghie e con i denti decidendo di smettere di alimentare la fornace delle speranze, osservi il serpente tentatore delle parole “la ruota gira” “bisogna saper attendere” “prima o poi tutto si aggiusta”. Lo osservi con un distacco che non avevi mai provato prima di oggi, aspetti il prossimo incontro con il tuo peggior nemico senza sapere quale sarà questa volta la sua faccia, con la paura che potrebbe essere quella che vedi allo specchio ogni mattina.

Ti lavi i denti la sera, scruti nell’iride dei tuoi occhi e cerchi qualcosa, una risposta. A volte la trovi e te la dimentichi, a volte semplicemente te la dai da solo, come un palliativo della buonanotte. Scruti i tuoi occhi dopo aver macinato kilometri di corsa, ci leggi la capacità di saper soffrire, ci leggi la certezza che ad un passo ne segue un altro e tu in questo sei sempre stato bravo: a mettere in fila tanti passi uno dietro l’altro.

Collezioni istantanee di vite che si infiammano come una sigaretta accesa al primo tiro e lentamente si consumano con ritmica e regolare velocità, generando lampi di luce ad ogni momento importante, scandendo così il tempo che passa. Sistemi tutto questo sedendoti su una sedia davanti ad un ipotetico palcoscenico dagli spessi tendoni di colore rosso, mentre il parquet scricchiola al pari delle tue caviglie.

Quelle caviglie che ti rappresentano infondo, elastiche e d’acciao, eppure così fragili per le mille distorsioni. Piccoli contrattempi che una volta ti fermavano, ti dicevano “metti le stampelle” e non le hai mai messe; ora ti ritrovi a saltare sugli infortuni, zoppichi per qualche metro e vai avanti, l’importante è non fermarsi e andare.

Racchiudi tutto questo negli accordi di una canzone, nel cercare un briciolo di tranquillità in qualcosa che riesca ad anestetizzarti, racchiudi tutto questo in un pianto rabbioso di chi non vuole arrendersi nonostante tutto a quello che ha attorno.

Ti riprometti di combattere, ancora una volta scopri forze che non credevi di avere e pensi all’unica lampadina che non si spegnerà mai.

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