E’ un susseguirsi di sensazioni, un accumularsi di semplici pensieri non veicolati dal lato conscio delle cose, dal tuo perenne analizzare, smembrare, capire, no. E’ un prendere il compasso, puntarlo sul foglio pieno di notazioni, scarabocchi, frasi, disegni e poi tracciare un cerchio, un cerchio che ti racchiude e di cui tu sei il centro, il piccolo e caldo centro pulsante del microcosmo personale di ognuno di noi: il mio.
Perchè quando tutto arriva dal lato inconscio succede che non sai cosa ti aspetta, succede che capitano le cose più impensate o forse semplicemente quelle meno considerate.
Ierisera ho forse assistito ad uno dei più bei concerti ai quali mi sia mai capitato di presenziare come spettatore. C’erano i Fine Before You Came, c’era una realtà che mi ha riportato a Lei in maniera singolare, non forzata da pensieri e processi emotivi scontati. Ierisera tre gruppi hanno sudato, cantato, si sono espressi con un’energia che non mi sarei mai aspettato, in un clima generale che non mi sarei mai aspettato. Poco importa se fuori dallo United mi sono trovato solitario con la mia macchina foto ad osservarmi attorno attendendo l’ora dell’apertura dell’area concerti, poco importa perchè ierisera ero lì per me primaditutto, per vedere cosa sarebbe successo davanti a tre gruppi che han saputo regalare belle emozioni, bella musica e, sopratutto, tantissima umanità genuina, di quella che è così raro incontrare al giorno d’oggi negli occhi di chi azzera le distanza con mille mezzi di comunicazione. Mezzi che come preservativi emotivi ci tengono lontani dalla semplicità di chi dal palco ringrazia di cuore e sai che lo sta facendo perchè quello che sta dando rappresenta qualcosa e si emoziona nel vedere chi canta le canzoni, nel vedere che anche per altri rappresenta qualcosa. E così urlando le canzoni dei Fine Before You Came è saltata fuori, sono saltato fuori io e qualcosa voleva forse dire. Ho sorriso.
Cambia l’ambiente, cambia la scenografia ma non cambiano le sensazioni. Già perchè oggi è invece stato il classico giorno della Bric & Valun, la corsa di 13km nella “mia” Vauda, la corsa che fino a giugno non pensavo sarei riuscito a fare, così oppresso e anestetizzato dall’esperienza milanese che mi aveva anche tolto una delle cose in cui più mi ritrovo, che più mi fanno stare bene. Ho provato, da giugno, a mettere insieme passi, passi pesanti e fatti di respiri affaticati, passi di chi in testa aveva un ritmo ed una melodia e non riusciva ad esprimerli. Troppa pesantezza nelle gambe, troppa pesantezza nella testa, troppe salite che in confronto a quelle della Vauda si ergevano come pareti non scalabili.
E’ stato duro in questi mesi macinare kilometri, macinare pensieri per ritrovare quella melodia, per ritrovare la capacità di correre senza pensare, nella particolare trance che sempre mi è stata nota. Uno stato in cui non senti più niente, tutto diventa distante e ci sei tu, c’è il tuo respiro e i tuoi passi che scandiscono il tempo di tutto quello che ti fluttua in testa; quanti pensieri a Luglio, quanti pensieri ad Agosto, quanti kilometri, quante piccole scoperte, quanto sudore e quante speranze.
Mi sono ritrovato ancora una volta alla linea di partenza in piazza Amedeo di Savoia, la spessa linea bianca tracciata con la vernice faceva da prologo alle iniziali B.V. e si respirava la classica aria che porta alle ore 14.30, orario in cui è sempre partita la gara da 13km. C’è chi ti saluta, c’è chi ti dice che andrà bene, chi si lamenta del caldo e chi ti chiede quanto credi di fare quest’anno. Non so quanto credo di fare quest’anno, voglio solo finirla, voglio farlo per me perchè è importante. Infondo da qualche parte spero di poterla vincere, ma è quella speranza che mi ha sempre accompagnato ogni volta che mi sono presentato alla linea di partenza; mi chiedono se conosco qualcuno, se c’è qualcuno da battere e io rispondo: “Prima di tutto devo battere me stesso”.
Non sapevo, o forse percepivo lontanamente, che di lì a poco sarei andato incontro ad un’esperienza parecchio emblematica in questo mio momento di vita in generale… e ora non starò di certo a cercare risposte nascoste, racconterò cos’ho vissuto, come l’ho vissuto.
Lo sparo arriva quasi inaspettato, le gambe partono, un pò sanno di esagerare ma è lo scotto che si paga ogni volta che si parte, con un pò di emozione. La strada la conosco bene, l’asfalto scorre sotto i passi e si trasforma in sterrato, mi giro e tutti sembrano lontani, non penso “ce la farò” non penso a nulla, guardo avanti e lascio che siano le orecchie ad avvisarmi che da dietro arriva qualcuno. Mi sembra di vivere un film in cui sono protagonista dall’esterno, sto bene e pavento una lucidità che si sostituisce a quella che è sempre stata la mia foga agonistica. Qualcosa mi dice di aspettare e di star tranquillo, di fare la mia gara, perchè non ho altri modi, perchè primaditutto devo correre per me stesso e poi alla fine si vedrà cosa raccoglierò.
Arriva la prima salita e la affronto con mio nuovo compagno di testa, lo conosco perchè due anni fa, quando arrivai primo, lui arrivò dietro di me… e l’anno scorso stessa situazione ma a me non andò così bene come l’anno precedente, finendo secondo. Nella mia testa però non c’è spazio per le classifiche e per le posizioni; sento i sassi minare ogni mio passo nella prima lunga salita di cui conosco bene le insidie, vado avanti e mi sembra quasi di perdermi in uno dei tanti “allenamenti” in vauda, in cui solitario ero in compagnia dei miei interrogativi, delle mie risposte.
Il mio corpo sa cosa deve fare e dopo i sali e scendi che si alternano arriviamo al lungo pezzo su ghiaia e sole che mette in luce il momento più difficile di tutta la gara. Ho staccato il compagno di testa ma nel mentre un altro ragazzo si è fatto sotto, siamo assieme e proseguiamo così fino a quando improvvisamente un dolore lacinante allo stomaco fa a pugni con le mie gambe che vorrebbero andare ad altre andature. Lui si allontana e io arranco, mi dico di stringere i denti, mi dico di non mollare. Guadagna terreno, 10 metri, 20 metri, 30 metri… e io arranco, sto malissimo e dietro temo nella rimonta dell’ex compagno di testa. Mi sento in un film tragico in cui, impotente, non posso far nulla per il protagonista che vede tutto girargli improvvisamente storto. Mi passa per la testa Lei, non so perchè, ma capita. Ad una leggera curva che anticipa l’entrata in mezzo ad una cascina. Avviene uno dei miei classici dialoghi con me stesso, proprio nel momento in cui si faceva viva l’idea di fermarsi ed abbandonare la gara, proprio nel momento in cui il mal di stomaco mi impediva di respirare e vedevo il capogara lì davanti. E’ in quel momento che penso a Lei e, senza un perchè, capisco che non devo mollare, che devo finirla tutta a qualsiasi costo, fosse anche quello di arrivare ultimo, perchè non voglio piegarmi davanti alle cose, perchè non voglio pensare che ci sia qualcosa di impossibile nella vita.
Gestisco la crisi, rientra ma non troppo perchè ad ogni falcata la fitta è lì minacciosa a promettere di farsi sentire se dovessi decidere di strafare. Il dolore mi costringe alla pazienza, la pazienza mi ricorda che è difficile saperla rispettare, saper vivere secondo i tempi di tutto quello che ti sta attorno. Il ragazzo in testa alla gara è lì, sempre 30 metri, si gira e mi osserva… io non penso ad una tattica, non penso a cosa fare o non fare… penso a correre e a vedere come andrà a finire, perchè ogni cosa non finisce finchè non vai a toccare materialmente la sua fine con mano.
So che sta per arrivare l’ultima salita, quella che due anni prima mi aveva regalato la vittoria, quella che non temo, perchè nella vita come nella corsa mi sono abituato ad affrontarle. E’ singolare ma ad ogni mio allenamento affronto per prima, subito, la lunga salita di Madonna delle Vigne, che da l’accesso alla Vauda-alta.
Curva, mi dicono “dai che lo prendi” e io non ci penso, penso alla salita, penso alla sua pendenza che si fa sentire sulle mie gambe e inizia a stringermi il fiato. Il dolore allo stomaco, con le sue promesse bellicose, sembra arrendersi alla determinazione con cui decido di spingere su per il primo tornante, secondo tornante, falsopiano… i metri diminuiscono, saranno 15-20 ora: la testa della corsa è lì davanti a me.
Tratto finale, imbocchiamo il sentiero natura che porta verso Madonna delle Vigne, provo una progressione timida per paura di strafare. Sto bene ma i kilometri si fanno sentire prepotentemente nelle mie gambe e nella testa. So che mentalmente sto già iniziando ad accontentarmi del secondo posto, come molte volte mi è capitato, mentre i miei sforzi di raggiungere il primo non producono alcun effetto.
Madonna delle Vigne, continuo a spingere mentre sento un drappello di vecchietti dire verso di me “Chial sì a’m sà ca va a pijè l’prìm”. Mi rendo conto che avevo smesso di crederci, che guardavo lì davanti il primo tentando di raggiungerlo e intanto la mia testa stava solo preparandomi ad accontentarsi del risultato. Me ne accorgo durante la discesa verso Piazza Cavour, quando ormai mancano poco più di ottocento metri all’arrivo. E’ lì che Lei spunta nuovamente dal mio inconscio, è lì che mi rendo conto che la mia indole ad arrendermi davanti alle cose, davanti anche solo a venti metri, mi ha sempre portato ad alimentare la mia insoddisfazione di fondo che mi accompagna.
E’ lì che capisco che non devo arrendermi con niente e nessuno, non devo arrendermi con Lei, non devo arrendermi con i miei venti metri, non devo ascoltare il dolore allo stomaco devo solo fare una cosa: tirar fuori chi sono, con tutto me stesso.
Piazza Cavour, mancano quattrocento metri, mi levo gli occhiali, danno solo fastidio, devo vedere bene davanti, perchè ho deciso che voglio sputare l’anima. Inizio la mia lunga volata, due falcate e vedo che guadagno cinque metri. Il primo non si gira, forse non se lo aspetta, io continuo a correre, non ho mai fatto una volata così lunga e così veloce, mi sento come fossi partito da fermo, senza 12 e passa kilometri nelle gambe. La schiena del primo si avvicina e lo passo come se fosse fermo: guardo solo avanti e penso a spingere, lo passo che mancano una cinquantina di metri all’arrivo e tutto si chiude, là dove era cominciato, vinco la Bric & Valun più sofferta, quella più inaspettata, quella che mi ha fatto tirar fuori cose che non avrei mai pensato di avere dentro di me.
Oggi, ancora una volta, la Vauda mi ha regalato qualcosa o forse mi ha solo indicato la strada affinchè fossi io a regalarmela e a ricordarmi che non ci si deve mai arrendere, che venti-trenta-quaranta metri di distacco si possono coprire se alla fine ci metti il cuore, che tutto il dolore che puoi provare diventa il tuo miglior alleato se alla fine sai resistergli e tagliare il tuo traguardo.