Come fai a raccontare un paese in poche righe? Come puoi riuscire a spiegare con parole le gocce di sudore che ti imperlano costantemente la pelle mentre per quindici giorni calchi una terra piena di così tanti volti, aspetti e anime da lasciarti disorientato ogni volta che ne incontri una nuova, un’altra ancora e ancora.
Puoi provarci partendo dall’inizio, dal senso di paura che ora sembra così lontano, lontano anni luce da quel mettere piede a Milano Malpensa, dove magicamente tutto inizia a scivolare lontano, distante, ovattato. Dove il surplus inizia a colarti dalle mani come grasso in eccesso, dove ti rimane la sostanza ed inizi ad osservarla quasi magicamente rapito, come un bambino davanti ad un giocattolo nuovo. Allora quasi ti sembra un eco distante il volo KLM per Amsterdam che rimane fermo a terra per un guasto al cesso. Allora capisci che mentre corri per il lungo aeroporto di Amsterdam quando le 5 ore preventivate di cambio volo si sono ridotte a trenta minuti scarsi, qualcosa sta già cambiando dentro di te: forse la semplice predisposizione a lasciare qui tutti i tuoi preconcetti, la frenesia di una vita, la nostra, la mia, condizionata da tanti di quei fattori da farti dimenticare l’essenza delle cose.
Già l’essenza delle cose, che trovi ripartendo da una penna e da un diario, un diario scritto per una persona, un diario scritto per me, per ricordarmi chi sono e da dove vengo, pagine su pagine che si accumuleranno nei giorni fino a diventare centoventiquattro, occhi su occhi che attraverso lenti fotograferanno cinquecento istantanee dietro alle quali si celano profumi, sensazioni sotto i piedi, bruciori e brividi di freddo sulla pelle, occhi socchiusi a cercare riparo dal sole, mani protese e passi saltellanti per sfuggire alla pioggia.
L’essenza delle cose è sentire tutto distante, anche le difficoltà, anche il muro di caldo umido che ti colpisce come uno schiaffo quando a l’Avana esci dall’aeroporto. Tutti un pò smarriti per il gancio mancato con chi doveva portarci alla nostra prima abitazione, tutti un pò incazzati per i bagagli che dato lo scambio volante si perdono e arriveranno solo a scaglioni uno e due giorni dopo.
Sei in un altro mondo e lo capisci mentre il taxi sgangherato ti porta per sette cuc a testa verso l’unico indirizzo per la notte che hai in mano. Ci si aggrappa alle piccole cose allora, mentre fuori un mondo già ti racconta di un universo cristallizzato agli anni ’40, con chevrolet e cadillac e pontiac di un’epoca in cui Elvis la faceva da padrone nelle charts. Strade popolate da carretti, da cavalli, da biciclette, strade che non esistono con autisti funanboli che inventano loro regole per muoversi nei budelli di Cuba, sono loro ad imporre le cose qui, è il loro mondo, è il mondo della pubblicità che non esiste e dei mille cartelli in cui ti ricordano che “uniti si vince” che “viva la rivoluzione” che “o patria o morte”, perchè qui la propaganda è una faccenda seria, qui la costruzione di un mito parte dalla costruzione dei suoi personaggi, dall’esaltazione di quegli eroi popolari che vogliono ricordare, con il loro esempio, come tutto il popolo debba sentirsi protagonista a Cuba.
E’ l’esaltazione estrema del socialismo, un concetto che se utopisticamente può affascinare e farti ben disporre, in realtà nasconde una facciata di contraddizioni estreme, dove un popolo nel nome di ideali paga uno stato di povertà allucinante in cui nessuno emerge, tutti devono rimanere al loro posto contenti di lavorare per uno stato che passa poche razioni di cibo al mese, con le quali è impensabile poter vivere. L’Avana è l’esaltazione della medaglia e del suo stesso rovescio: dove convivono le zone belle e ricche quanto quelle, pochi isolati distante, povere e degradate in cui a volte manca l’acqua e l’elettricità. Camminare per le strade è come camminare attraverso una città in guerra, osservare gli occhi della gente, tutta riversata lungo le strade, quasi a cercare respiro dalle mura soffocanti o forse da una vita anch’essa soffocante, è contemplare uno spaccato sociale che mostra profonde ferite che urlano ma che nessuno sembra aver il coraggio di voler sanare.
Perchè qui chi vuol cercare altro scappa verso Miami o verso l’estero, perchè già da subito, camminando per i marciapiedi di centro Avana, dove siamo alloggiati, comprendi dalle parole di Irasema, la ragazza che è stata il nostro piccolo gancio a l’Avana, che la musica è un’altra. Mi interessano le storie e me le faccio raccontare sui tavolini della casa particular o ai tavoli di ristoranti improvvisati dentro delle case. Sento così la storia di Irasema, vent’anni e due figli, la storia dei suoi sogni e delle sue aspettative, mentre ci segue nei nostri giri per l’Avana e quasi imbarazzata confessa di non averne mai visto alcuni posti, mentre mi dice che con quanto ho speso per la mia macchina lei si sarebbe comprata una bella casa a l’Avana per lei e i suoi bimbi, mentre mi racconta cose pesanti con una serenità che non capisco da dove venga e che molti confondono con rassegnazione. Non è così, non è così neanche per Fernando, incontrato davanti alla Forteza della città, che fa il chimico e nei turni liberi fa la guida clandestina per arrotondare, perchè a Cuba esistono due mercati, uno globale e uno sotterraneo, perchè a Cuba ti danno 25cuc al mese di stipendio e con 25cuc al mese non fai niente, perchè a Cuba una busta di latte liofilizzato costa 5cuc e quindi fatevi un pò voi i calcoli.
Ogni medaglia ha il suo rovescio e piano piano grattandone la superficie scopri il controsenso che ha ogni singola parte dell’archetipo della revoluciòn. Vedi i bambini accontentarsi di giocare con un sasso e vivere di poche cose, li vedi osservarti da lontano e magari chiederti una caramella; prendi autostrade che sono piene di buche, con gente che va contromano, binari del treno senza passaggi a livello che le tagliano, persone accampate ai lati della strada che ti vendono frutta in cambio di un passaggio. Già perchè le macchine sono un privilegio e non a caso la benzina lì è distribuita da una, fra le altre catene, chiamata Oro Negro: mai nome poteva essere più azzeccato.
Ti coglie di sorpresa poi Cuba, esci da l’Avana e vai verso Santa Clara, la città del “Che”, scopri altra gente, gente che sembra stare meglio ma che soccombe sempre sotto la spessa cappa del pensiero unico e comune, la direzione maestra che non si deve mai abbadonare, la catechizzazione sistematica nel nome anche dei nuovi eroi da creare, dopo il “Che” ecco ora i “Volveramos”, prigionieri negli USA, prigioneri dell’ Imperio contro cui si riversa tutta la propaganda. Ti coglie di sorpresa la curiosità della gente,la curiosità di leggere attraverso i tuoi racconti un pezzo di quel che avviene là fuori, dove per loro è molto difficile poter andare, perchè non possono lasciare l’isola.
Finisci per avere un moto di commozione quando di trovi davanti alla tomba del “Che”, non tanto per lui come personaggio o come eroe, ma perchè lo trovi sepolto, come tutti gli altri suoi compagni, nello stesso posto, alla stessa maniera… la celebrazione è fuori, nella statua, nelle parole, nei ricordi, nelle magliette. Ma lì sotto è un uomo come tutti quanti, questo mi colpisce per quanto subito dopo capisca che fa parte di un disegno preciso, di un’idea ben precisa…quella di uguaglianza, almeno ideale, almeno nei suoi principi o presunti tali.
Finisci a Remedios allora e trovi la tua piccola famiglia, una “mami” padrona di casa che ti racconta molte cose su suo figlio, che quasi ti coccola chiedendoti se può lavarti la roba sporca, se hai bisogno dell’ombrellone il giorno dopo… ancora una volta rimani stupito dall’ospitalità della gente, dalla spontaneità per noi così distante con cui cercano di farti sentire a casa. “Tu es a casa” mi dicono e giuro ci credo quasi, perchè quando ripartiamo nel salutarli mi viene anche un pò da piangere per cos’hanno fatto, niente di particolare eppure così speciale.
E allora realizzi che la stai toccando, cazzo, l’essenza delle cose, l’essenza delle situazioni che non lascia spazio ai fronzoli, di sorta… perchè tutto viene ridotto ai minimi termini e mentre cerchi di capire loro, la gente che ti sta attorno, finisci per capire nuove cose su te stesso e su chi sta attorno a te… su che valore dai a certe persone e allora scrivi scrivi e fai foto, devi immagazzinare tutto, ogni singolo odore ogni singola cosa.
Perchè anche nei posti difficili e pesanti come Sancti Spiritus e Trinidad, alla fine trovi una lezione sottesa, un filo rosso che segue il tuo tragitto lungo tutto l’isola, una guida che ti permette di capire meglio il grido disperato di questa gente che non sta bene e non capisci come non riesca a scuotersi e ad alzare la testa verso una situazione in perenne limite di bilico e di collasso.
Come stride allora finire a Cayo Largo, il paradiso dei resort e della Cuba turistica, quella di chi atterra a l’Avana e vola direttamente verso le isole o posti come Varadero e Cayo Coco, saltando completamente tutta quella parte di isola che respira lungo le strade, che sa un pò di piscio e un pò di marciapiedi in cui ad ogni passo devi vedere dove metti i piedi, quella di chi ogni due metri ti ferma chiedendoti del sapone o dell’acqua o delle medicine. Com’è lontana la realtà del farti la doccia con pochissima pressione d’acqua dove invece puoi sederti, scegliere, mangiare all’occidentale… com’è strano sentirsi colpiti e alieni in questo mondo che sembra portarti violentemente alla tua vita di “prima”.
Capisci paradossalmente proprio lì che vuoi tornare a casa, alla tua vera casa, per cercar di capire tutto quello che ti è capitato, capisci che lì hai finito le cose da fotografare, le cose da osservare e respirare, perchè la tua mente le sta invece cercando in qualche vicolo, magari sotto un temporale tropicale che trasforma le strade di città come l’Avana in fiumi in piena dopo pochi minuti; mentre mastichi ancora la surreale sensazione di lasciarla, alle 4 del mattino, completamente senza luci, una città completamente addormentata e rischiarata sporadicamente dai fari di qualche taxi regolare o meno.
Ti vengono in mente le parole di tutte le persone che hai incontrato, della “mami” di Peppe che dall’Avana al telefono, nel consigliarci a chi doveva ospitarci in una casa a Santa Clara lo rassicura dicendo “tranquillo sono italiani ma in realtà non sono per niente italiani”. Perchè qui l’Italiano medio viene per andare a ragazze, per fare il ricco con due soldi e portarsi in spiagge come quelle di Playa de l’Est donne e droga. Il discorso vale ovviamente anche per il sesso opposto: i gigolò sono una realtà florida e diffusa.
Ti viene in mente lo sguardo della “mia” mami di Remedios, che mentre scrivo il mio diario mi osserva sorridendo e mi chiede se non stia tenendo un diario di bordo come i naviganti, mi dice che faccio bene perchè i diari servono sempre per non perdersi e le sorrido perchè ha ragione e ha capito tutto.
Misuri ogni passo l’ultimo giorno, in un misto di forte desiderio ad andartene e la paura di perdere tutta la serie di sensazioni che certi posti hanno saputo darti, la paura di tornare come prima. Fortunatamente non è così, fortunatamente anche lì il mio diario ha fatto il suo dovere, è stato la mia bussola, una bussola che solo una persona potrà leggere e capire, perchè una cosa che ho ancor più capito in questi giorni è che è di lei che mi fido per tutto questo.
Ti trovi in aeroporto e mentre l’aria condizionata inizia a farti squamare la pelle vedi un mondo piano piano scomparire lentamente, dove lo scalo ad Amsterdam e il museo di Van Gogh costituiscono la miglior camera stagna a compartimenti separati per il graduale distacco e ritorno alla tua realtà, con in testa però le immagini ed i sapori e le contraddizioni. Tutto ciò che non pensavi di trovare in una semplice isola, tutto ciò che non pensavi potesse ancora esistere al mondo.