Sei lì, al solito posto. Sono le 19.30 e con piemontese puntualità sai che sta per iniziare la cena. Famiglia schierata, tutti ai posti di combattimento, bicchieri che si riempiono, gesti collaudati e ben conosciuti, rodati, stilizzati nel routinario ripetersi sistematico. Quasi sei anestetizzato al ronzìo di sottofondo della tivvù. La tivvù che hai studiato tre anni più due, la tivvù che non guardi praticamente più, troppo arida, troppo scostante, troppo distante dalla realtà.
La realtà che sa di passi, di aria fredda nelle narici la mattina, delle tue cuffiette viola, cazzo erano finite le altre, di parole e riscaldamento e rotaie, ancora rotaie, di porte, che si aprono, che si chiudono.
No.
Ma sei sempre lì, al solito posto, quando nel tastare il tempo Gianfranco Bianco ti parla dal tg regionale e qualcosa cambia. Qualcosa ti fa alzare la testa dal piatto, qualcosa ammutolisce anche la combriccola familiare che discute animatamente. Basta poco.
Basta uno “ssst” e allora senti rimbalzare una storia che ti rimbalza dentro.
La notizia: Ospedale Sant’Anna di Torino, una ragazza somala, una donna somala di 28 anni, in coma, con in grembo una bimba, con in testa un male che la sta divorando e che già l’ha fatta giungere sotto la Mole cieca e gravemente provata: un marito che le prova tutte, per salvarla, per tenere in vita la speranza per gli altri suoi figli di poter avere ancora una mamma.
La cruda realtà: non c’è proprio niente da fare, cioè proprio un cazzo da fare. Perchè si sa la vita non ti guarda il curriculum vitae quando decide di scegliere per te determinate cose. Perchè si sa che la vita tira dritto, va avanti senza fermarsi, non ti guarda e così fa anche la morte.
Non è egoismo, non è essere spietati, forse semplicemente è uno dei pochi baluardi incorruttibili, estranei allo spietato, quello sì, calcolo dei pro e dei contro razionali, interessati e viscidi che noi, uomini “civili” sappiamo fare, dandoci un tono ed una medaglia per il nostro saper essere così “giusti”.
Tengo in mano la forchetta e la poso, bevo una sorsata di vino e mi mordo un labbro con i denti, cerco un contatto con qualcosa di me mentre sento la storia di Edil, la storia di due Edil.
Edil è un nome, immagino venga dall’Africa, dalla Somalia, da posti che hanno odori che non ho mai sentito, da posti che ti segnano sulla pelle segni profondi ed indelebili, sicuramente meno marcati di quelli che ti si insinuano dentro, nell’anima, nel profondo. Simboli che vedi negli occhi e nelle espressioni di chi c’è stato.
Edil è un nome stupendo. Nel giorno di Martedì 28 settembre 2010 è un nome che vuol dire vita. E vuol dire morte.
Edil è la storia di una ragazza di 28 anni scappata da un paese che non conosce pace, un paese che noi ci dimentichiamo finchè non ci troviamo storie come la sua davanti agli occhi. Un paese che come molti altri, in Africa, viveo profonde e dilaniate guerre in cui la vita delle persone diventa un valore così labile da diventare ancor più il più grande bene che si possa avere. Perchè quando non hai nulla, quando non hai diamanti da regalare per dimostrare il tuo amore verso una persona, quando non pensi a quale regalo farai alla tua donna/uomo per Natale, ti ritrovi a pensare che l’unica cosa, l’unico regalo più grande che vorresti… è la semplice certezza di poterlo rivedere il giorno dopo.
E questa certezza non c’è. In Africa, nel 2010, non c’è.
Ci sono storie come quella di Edil, portata da un marito che non immagino volesse preziosi per la donna che amava, ma semplicemente poterla vedere ancora una volta e una volta ancora e poi ancora.
Ci sono queste cose che spuntano una sera alle 19.30 e ti dicono di una donna che in coma sta tenendo in grembo una bambina, ti raccontano di uomini che la aiutano, di una scienza che si fa sconvolgente comparsa in un teatrino che, distante da vicende di case di politici, vede la Vita e la Morte discrete protagoniste nello spartirsi equamente la fetta della torta.
Ci sono gli estremi più distanti racchiusi in una sala operatoria, impersonificati da due creature che portano lo stesso nome: Edil.
Edil è una ragazza che è arrivata in Italia senza poterla vedere, già cieca a causa del tumore che le divorava il cervello. Edil è una bambina nata prematura da un parto cesareo, finita in un’incubatrice strappata dalla pancia di una mamma che non poteva più portarla con sè. Edil è riuscita per un attimo ad aprire gli occhi e tornare a vedere, prima di riprecipitare nel buio che non avrebbe consentito altre luci sul mondo reale. Edil ora pesa pochi kg e combatte col suo piccolo cuore per dimostrare a tutti quanti che c’è, che è viva e vuole rimanerlo.
Poso la forchetta mentre una voce dice che la piccola sta bene ma che è presto per dire come sarà, come starà. Mi chiedo se mai qualcuno lo dirà, mi chiedo se si saprà, come in tutte le storie che molti telegiornali si sentono il dovere di lanciare e mai concludere, come starà Edil. Quando spegnerà le candeline dei suoi compleanni, quando imparerà a camminare.
Nella notte l’altra Edil, quella che la sua partita stava portandola alla conclusione, finisce di lottare con tubi, respiratori e macchinari. Ha lasciato qualcosa di sè nel mondo, ha lasciato un’altra Edil, ha lasciato una traccia.
E una traccia l’ha lasciata anche in me.