Ci sono cose che ti capitano e cose che ti scegli.
Insomma, voglio dire, ci sono delle cose anche che però a volte ti capitano e scegli di prenderle al volo, o forse semplicemente ti hanno già preso prima ancora che tu lo sapessi. Perchè ti ci specchi dentro e ti riconosci, perchè semplicemente sono quelle malattie di cui sei portatore sano di un gene.
E quindi ecco che mi vedo in questa stanza contorniato da tutti quei sintomi o forse semplicemente dalle dirette espressioni patologiche di qualcosa che mi ha colpito tanti anni fa. Quelle cose che alcune mamme non augurerebbero al proprio figlio. Sicuramente quel genere di cosa che col senno di poi i miei non si sarebbero mai augurati. Almeno non così.
Insomma stiamo parlando di me e della musica. Ma non della musica tipo walkman, musicassette, ciddì (sì lasciatemi questo momento di bucolica nostalgia per questi supporti, quando stavi le ore ad aspettare che la cassetta arrivasse al punto giusto della canzone che volevi ascoltare, quando i termini “shuffle” e “random” andavano giusto bene a riempire le pagine bisunte dei dizionari di inglese per i compiti).
Dicevo non la musica di quel genere lì. Intendo la musica quella fatta, quella suonata, quella che quando mi misero il famoso Aulos Soprano in mano, alle medie, io quasi snobbavo, trovando però divertente a spaccarmi nel trovare ad orecchio qualsiasi canzone unz e tamarra del tempo. Sticazzi vogliamo mettere, tiravo giù come niente fosse tutta la fuffa degli 883 e mi sentivo anche un pò un gran artistone per questo.
Ma la verità è che dell’Aulos Soprano, degli 883 e della musica in genere non mi fregava più di tanto, ed è parecchio singolare a pensarci ora, in questa stanza piena di strumenti che attentano alle mie orecchie e alle mie finanze. Beh fatto sta che nonostante mille vicini di banco che mi propinavano le peggio truzzate dell’epoca, io rimanevo per lo più indifferente e la mia idea di musica rimaneva ai viaggi in vacanza con i miei, quando mia madre, rompendo quasi il voto di antimusicalità insito in casa nostra, tirava fuori le sue vecchie cassette di De Andrè che mi piacevano un fottio.
Insomma sono dovuto arrivare alle superiori per arrivare al fattaccio. Nella fattispecie la colpa fu tutta di Forme. Forme si presenta il primo giorno con una maglietta degli Offspring sopra un camicione a quadri, esibisce le punte dei capelli di un vago richiamo rossastro e con la faccia da cane bastonato mi chiede se ho un cazzo di foglio protocollo.
Gli do il foglio protocollo e lui da lì ai mesi successivi mi snocciona una biografia completa di Dave Mustaine, mi riempie il banco e le sedie di scritte inneggianti ai Megadeth, requisisce i miei diari di scuola scrivendomi di tutto e facendomi una capa tanta sul suo gruppo di allora, su come fosse passato dalla chitarra al basso e su come sarebbe fichissimo che io imparassi a suonare la chitarra.
In effetti la cosa, anche solo per sfinimento, dopo un pò inizia a gustarmi. Anche perchè mi ricordo di avere uno zio artistone con, a casa di mia nonna, una stanza piena di vecchi vinili, qualche chitarra, un basso e di tutto di più.
Insomma non so bene come ma quella che prima era tiepida indifferenza, ereditata in gran parte dal modo di considerare la musica in casa mia, inizia a diventare un focherello il cui calore piano piano si fa più convincente, più avvolgente.
Non so bene come ma inizio a passare i pomeriggi a casa di mia nonna ad ascoltare le discografie dei Beatles, a cercare robe dei Led Zeppeli, a farmi cassette con i Genesis e mi dico che cazzarola quella roba non è male, mentre Forme continua a martellare.
Un giorno arriva a scuola con un disegno, su foglio a quadretti, di una tastiera della chitarra, con segnate tutte quante le note con maniacale precisione. Il tutto è accompagnato da un foglio sgualcito in cui ci sono testo ed accordi di “One” degli U2. Mi dice che mi devo procurare una chitarra, perchè è una figata.
E io ci credo, perchè Forme scasserà anche le palle, ma gli dico che se la smette di scrivermi “Megadeth” ovunque io ci provo anche a prendere una chitarra in mano.
E’ l’inizio della fine.
Inizia qualcosa che anche se parte piano, con i primi mesi passati a studiare i giri armonici, e rischia quasi di arenarsi, ben presto esplode quando decido di liberarmi di tutti i preconcetti e semplicemente suonare. Allora prendo la chitarra classica e ci levo via le ultime tre corde in nylon: le metto in metallo per fare più macello, per sentirmi. Allora inizio con i miei disegni sulla chitarra, inizio a cercare tutte le canzoni ad orecchio, inizio a sperare che mia cugina mi faccia usare internet nel WE per potermi scaricare delle tab da imparare.
E mentre tutto ciò avviene mi bombardo di ascolti, mi faccio overdosi di musica mentre Matteo, detto Mad, spunta fuori dai meandri delle conoscenze d’infanzia e diventa il più bel sodalizio musicale che potessi incontrare in quegli anni. Ci si trovava ogni sabato a casa di uno o dell’altro a strimpellare, ad ascoltare musica, a nutrirsi di vocaboli per imparare a parlare meglio con le dita.
E mentre le dita iniziano a fare meno male e gli accordi diventano naturali, ti trovi ad improvvisare i primi soli, inizi a guardare con luccichio negli occhi le prime chitarre elettriche anche se ti stoppi subito, perchè arriva il tuo Zio a dirti una frase ad effetto fichissima che racconti ancora adesso in giro a chi ti chiede “perchè non ti sei preso subito l’elettrica?”. “Ovvio”, direbbe mio Zio, “Perchè il chitarrista valido si riconosce da come sa suonare l’acustica”.
La malattia, la fottutissima malattia. Ti spacchi il culo un’estate e tiri su la tua prima chitarra acustica, blu notte. Quella comprata usata, quella che ti sei portato in giro ovunque, quella su cui hai registrato i primi tentativi sul multitraccia “preso a prestito” da tuo zio, quella che un giorno torni a casa e la famiglia schierata a funerale ti dice essere caduta mentre tu eri via, rotta, spaccata. Quella che non si sa bene come e perchè, il tuo mitico zio cazzo fa risorgere.
Ed è un susseguirsi di cose che ti porta a prendere la chitarra elettrica scrausa che trovi a casa del solito Zio, ad attaccarla al “Canta TU” alzando il volume al massimo per mandare in clip il cono ed ottenere così la tua prima fottutissima distorsione. Cazzo che soddisfazione sentirla la prima volta, nemmeno ci fosse un muro di Mesa Boogie dietro di te, eppure ti sembrava l’aprirsi di un mondo nuovo.
E giù a mettere canzoni alla radio, giù a suonare dietro a mille cose, imparandone mille altre, finchè finisci per sostituire il Canta TU con un amplificatore vero, finchè a 18 anni è dinuovo il momento di cercare una chitarra, stavolta un’elettrica, la tua prima.
Ma già sai dove andrai a parare e quando la vedi è subito amore e capisci che è lei che vuoi e che finirà nelle tue mani, è lei che è ancora lì dietro nella custodia, cambiata sotto mille aspetti, ma sempre lei, che ti ha ammaliato in quel negozietto di Ciriè.
Perchè allora capisci che il tuo intendere le chitarre è un qualcosa di particolare. Non sono solo oggetti, diventano un pezzo di te. Diventano qualcosa di veramente importante, forse quasi sacro.
E oggettivamente ti senti anche un pò psicopatico per questo. Per questo tuo guardartele e riguardartele, quelle che sono tue, intendo, quelle che ti colpiscono davvero.
Non ho mai capito quelli che riescono a dare un nome alla propria chitarra. Cazzo sarebbe come non so, dare il nome al proprio uccello andando in giro a smenare il fatto che il tuo uccello ha un nome. Lo trovo poco carino, forse un pò tanto autocelebrativo. Perchè alla fine lei è me e io sono lei quando è con me. C’è poco da fare, non ci dai un nome, ci vivi assieme, dico io. Sì effettivamente è una visione da sociopatico del cazzo ma che ci volete fare la questione è esattamente così, in questi termini.
Come dimenticare poi il giorno del grande salto. Il giorno che dopo anni di risparmi messi da parte prendi la tua macchina, paghi il casello a Rondissone e prosegui verso Novara. Hai una leggera tachicardia e 1.600 euro in contanti nel tuo portafoglio. Cazzo è così gonfio che messo nella tasca, seduto sul sedile della macchina, ti sbilancia da un lato quasi, come se avessi una pietra nel culo.
Sei nervoso e ne hai ben donde perchè stai per andare a vedere la chitarra che sognavi da tempo, da anni, praticamente da quando Forme ti portò a vedere quel catalogo di chitarre, che tu te ne fottevi e non sapevi la differenza fra un single coil e un humbucker ma quando hai visto Lei, cazzo, tutto si è fermato.
Gibson Les Paul Custom. Un sogno che ha il suo prezzo oltre che il suo fottutissimo peso.
Ma quando la vedi sai che è lei. Quando la prendi in mano è come se un pezzetto di un puzzle andasse esattamente al suo posto, allora, la prima volta, come adesso, ogni volta.
Ti ci affezioni, perchè ne passi tante con lei, ma sopratutto perchè finisci anche quasi per sentirti in colpa quando l’alterni, negli anni, ai vari muletti che l’hanno affiancata.
Tutto questo per una malattia, per una cazzutissima malattia che ti sei preso a 16 anni, quando non immaginavi come sarebbe andata a finire, tu in una stanza piena di amplificatori, chitarre, un basso, una batteria, tu che finisci per respirare e vivere ogni giorno di queste cose, tu che vivi un pò pensando, forse sperando di diventare un involontario “Forme” per qualcuno, magari senza riempire di scritte “Megadeth” tutte le fottutissime cose che incontri.
Perchè alla fine non sai mai che succede.
Perchè Forme ora è papà di una bimba, non scrive più “Megadeth” ovunque, non ha più i capelli dritti con le punte vagamente rosse, o la camicia sotto la maglietta degli Offspring. Non mi chiede più fogli protocollo nè mi scrive sul diario promemoria per le magliette di gruppi sconosciuti che vuole io gli prepari ad hoc con i miei colori da maglietta. No.
Però io so solo che ho ancora quel suo foglietto con tutte le note segnate, sulla tastiera della chitarra. Ho ancora quel foglio sgualcito con “One” degli U2. Ogni tanto mi capitano in mano i vecchi diari delle superiori e vedo i suoi inviti ai concerti della sua band di allora, vedo i suoi “Megadeth” e “Brujeria” e penso.
Penso che ogni tanto ci sono cose che ti capitano e cose che ti scegli.
E penso che Forme sia capitato, ma ciò con cui mi ha martellato me lo sono scelto.
E sorrido.