Leggere è una cosa che ti insegnano a scuola, quella cosa che alla fine dei conti diventa il motivo per cui la tua vita cambia radicalmente e passi dal tracopiare le scritte “Topolino” dagli omonimi fumetti, come il sottoscritto si adoperava a fare, per entrare nel mondo alfabetizzato.
Ottimo.
Da questo piccolo grande fattore alla fine ti rendi conto dipenderanno molte cose della tua vita, perchè i libri in un modo o nell’altro, che tu lo voglia o no, c’entreranno sempre.
Quando facevo le elementari c’era una mia compagna di classe non molto reattiva, infatti fu bocciata in prima elementare. Aveva una nonna che la accompagnava ogni giorno e quando doveva recuperarla perchè magari non si sentiva molto bene, nel firmare il registro alle bidelle tracciava una bella X.
Mi sono domandato molte volte come fosse il mondo per quella nonna. Nel senso. Arrivare ad avere una certa età, in un mondo che, per quanto fossero gli anni ’80, già si indirizzava sui sentieri frenetici e multimediali poi esplosi negli anni ’90; arrivarci con attorno scritte e numeri di cui tu assolutamente non sai nulla, per te sono come arabo anzi peggio perchè l’arabo così com’è scritto sembra pure un bell’elemento decorativo e invece no.
La nipote quando faceva le “a” e le “o”, nel tracciare quei cerchietti, ci metteva tanta convinzione (almeno per me era convinzione) che finiva per bucare il quaderno a quadretti. Sì perchè quando impari a scrivere ti fanno usare i quadretti, così riesci a tenere bene presenti le proporzioni delle lettere. Mi ricordo che ci ho passato un pomeriggio in lacrime su quelle cazzo di “a” “e” “i” “o” “u”, u come la stracazzo di uva che io volevo solo disegnare e non scrivere, ma Caterina era inflessibile e ci teneva proprio che scrivessi decentemente. Ah e che leggessi anche, s’intende.
Il primo libro che mi fecero leggere fu “Cipì”, una storia triste di un passerotto che si trova ad affrontare l’inverno. Mazzata. Mazzatissima. Non si fa così, non si comincia con cipì, che mi ricordo me lo sognavo disperato in quel nido mentre attendeva il ritorno della mamma. Da lì già si capisce come i libri possano influenzarti la vita. Mi ricordo la copertina in cartonato, un pò porosa. Mi piaceva tantissimo al tatto, così come mi piaceva la sensazione delle pagine. Cioè il loro odore. E’ una cosa che faccio ancora oggi: annusare i libri, respirarli prima di leggerli. Ma tutti proprio, anche quelli della biblioteca che sanno di mille mani. Da gagno quando andavo a prendere i libri in biblioteca, prima di portarli al banco per ratificare il prestito, mi soffermavo a leggere la lista di nomi che avevano letto prima di me il libro che stavo prendendo, pensavo “chissà che ne han pensato”.
Dopo “Cipì” comunque arrivò il classico Pinocchio e lì capii che i classici li reggevo poco. Forse li ho sempre retti poco. Un pò come quando tutti quanti ti dicono “minchia ho visto quel film, troppo figo, spacca di brutto, vince oscar, mongolini d’oro, coppe del nonno…” e io penso che di rimando non lo voglio vedere manco per i cazzi. Quindi Pinocchio passò e ci fu invece “Il Principe Felice” di Wilde, in cui mi innamorai della narrativa un pò verosimile, un pò fantastica, senza una necessaria morale buonista delle palle alla fine (che comunque c’era sempre, te la devono sempre mettere la morale nei libri per bambini).
D’estate Caterina era inflessibile poi: io contentissimo della fine della scuola e lei che si sentiva paladina di una cultura da preservare e mi obbligava a leggere tot di libri. Lo fece per un pò di estati, finchè non mi resi conto che camminavo con le mie gambe e che in realtà volevo leggere di mio, per i fatti miei.
Mi propinò a forza un “viaggio al centro della terra” e un “ventimila leghe sotto i mari” che odoravano ancora un pò dello stantìo dello scaffale profondo del negozio in cui sicuramente era riuscita a recuperarli. Erano libroni enormi per i miei occhi di bambino e leggerli mi pareva quasi un esercizio rituale, almeno nell’inizio. Sì perchè mia madre scassava le palle per spingermi a leggere ma il momento critico era solo iniziare, perchè poi alla fine mi piaceva. Mi mettevo a pancia in giù sul divano, con il libro a terra, studiando una posizione scomodissima che poi mi avrebbe accompagnato in qualsiasi cosa da studiare di lì a tutte le superiori. Ero così pirla che finivo per farmi andare tutto il sangue alla testa e alzandomi mi pareva di avere sempre la pressione che scendeva fino alle unghie dei piedi.
Col fatto che Caterina mi obbligava alla lettura si diffuse la voce che io ero una sorta di lettore accanito. Grazie mamma. Quindi alla fine mi trovai con un bel pò di libri da leggere, con parenti che si pigliavano bene a consigliarmi questo o quell’autore e io che diventavo una sorta di macchina divoralibri. Sì perchè crescendo, dalle medie alle superiori, ho iniziato letteralmente a mangiarmi i libri, una cosa che con l’università si aggravò notevolmente.
Se un libro mi piaceva, insomma, io lo leggevo alla velocità della luce, come se avessi paura che potesse scappare, fuggire con tutto quello che c’era scritto. Perchè volevo sapere la fine della storia, perchè volevo sapere! Passai un’estate in cui in un mese lessi tutta la produzione di Conan Doyle su Sherlock Holmes. Io diventai fan di Holmes e mia cugina di Agata Christie. Mi ricordo che fu una specie di derby e io mi rifutai categoricamente di leggere qualcosa della detective che mi ricordava troppo Jessica Fletcher e sticazzi “La Signora In Giallo” se la vedeva sempre mia nonna con mio grande atterrimento.
In terza elementare mia nonna credo, proprio lei, quella di Jessica Fletcher, mi regalò il primo libro che mi fece capire che a me leggere piaceva. Fu anche il primo libro che mi fece piangere e come le prime cose che fai, non te lo scordi mai. Bene. Il libro era “I Ragazzi della via Pal” e io provai per la prima volta (tanto per dire ancora una volta “prima volta”) la sensazione del sentirmi tirato verso un personaggio, quella sensazione che ti capita di immedesimarti in ciò che leggi, iniziando quasi a vedere con gli occhi di chi sta vivendo nelle righe che stai leggendo. Il piccolo Nemecsek diventò il mio alter ego e quanto piansi quando alla fine pur di partecipare alla grande battaglia si prese il febbrone e morì di polmonite.
Lessi molte volte quel libro di Molnar, anche se poi ne vennero altri, anche se ne sono venuti altri.
L’università invece mi trasformò in qualcosa di abbastanza inumano. Non nel senso positivo per carità, nel senso che per necessità di causa dovetti ricorrere ad estremi rimedi. Esami da preparare in tempi brevi, mattoni da 600 e passa pagine da assimilare da tutti i pori. Fosse servito fare degli aerosol di storia dei mezzi di comunicazione di massa me li sarei anche fatti, invece imparai a leggere veloce.
Nel senso lettura selettiva. Quindi iniziare un paragrafo, capire/intuire se verrà scritto un concetto/chiave e valutare se proseguire o saltare al paragrafo dopo. Così facendo in un giorno epico (o sadico non lo so) esaurii le seicentottanta pagine di nonmiricordopiucosa in un giorno.
Maledetta università.
Mi stava strappando il piacere di leggermi un libro. Già di mio come ho detto ho questa predisposizione alla foga nel voler leggere e finire per capire, finivo per ingozzarmi letteralmente di un libro, come quando ti siedi a tavola e inizi a mangiare come non ci fosse un domani, tracanni tutto quanto e alla fine spari un rutto da galera per disturbo della quiete pubblica.
Stavo preparando un esamone di semiotica del testo e per sbaglio mia sorella fece cadere sotto il mio sguardo uno dei libri di harry potter. Cazzo. In tre giorni avevo finito i primi tre tomi e nel mentre studiavo.
Robe da esser fuori di testa. Insomma ci ho messo un pò, mi ci sto impegnando anche adesso.
Paio uno di quei tossici che stanno cercando di smettere, quelli che “lo giuro sono pulito da un tot, mi sto regolando”.
Ecco.
Sto regolandomi, sto cercando di darmi i libri a piccole dosi, respirando anche magari mentre li leggo e non assumendo uno sguardo da epilettico che sta registrando mille informazioni al secondo.
Perchè alla fine i libri mi piacciono, ti cambiano molte cose, ti fanno usare quella parte di testa che la televisione sta addormentandoci con iniezioni di “realtà aumentata” al punto di cercare di colmare le lacune della fantasia con gli effetti speciali.
Ma la fantasia per me sta sempre avanti dieci lunghezze, così come i film personali che ognuno di noi può farsi nell’immaginare una storia.
Mi piacciono i libri, mi piace il fatto che ti ricordino di star fermo, mi piace sentire il loro odore e la consistenza delle pagine. Mi piace il fatto che possano dire molto di più di quello che non significhino con le loro parole o con l’intento con cui sono stati scritti, perchè alla fine ognuno di noi da un proprio valore ad ogni parola e quindi ad ogni libro.
Mi piace il fatto che ci siano libri che ti scelgono, come capitatomi pochi giorni fa, e nello sceglierti non ti fanno promesse, che io odio.
Ti dimostrano qualcosa di te che forse nemmeno sospettavi.