Questa volta ho deciso di partire con un paradosso. Che non è necessariamente un riparo per dossi (grasse risate in studio, di quelle pre-registrate alla happy days). Perchè è da giorni che c’ho sto mega pippone che mi tùira nella testa riguardo ai piccì e a sto benedetto mondo di quella che all’università mi hanno fatto chiamare CMC.
A me CMC sapeva troppo di malattia, come TBC per capirci, però voleva semplicemente dire “Comunicazione Mediata da Computer”. Questa cosa che nelle sigle a volte ci mettono le iniziali delle preposizioni e a volte no non mi è mai troppo piaciuta, ho sempre pensato, da sindacalista delle preposizioni e degli articoli, che il loro utilizzo a capodicazzo poteva essere frustrante dal loro punto di vista.
Vabeh a me i computer sono sempre piaciuti un fracco. Nel senso che ero un curiosone (strano) di prima risma già da gagno e mi ricordo che facevo credo terza elementare quando in pieno boom fine anni 80 inizio 90 c’era Jovanotti che faceva la pubblicità della Nintendo. Si invitava una tipella a casa e poi passava la serata a giocare col nintendo mentre questa si smoccolava di brutto sul divano.
Tutti avevano il nintendo. Tutti.
E quelli che non ce l’avevano avevano l’Atari.
E quelli che non avevano l’Atari finivano per andare a sbucciarsi puntualmente le ginocchia in cortile. Io andavo a sbucciarmi le ginocchia in cortile e Luciano e Caterina decisero per me che il Nintendo era un pacco.
Però ero curiosone su tutta la fuffa tecnologica e quindi, come dicevo, arriviamo alla mia terza elementare con Luciano che si presenta con sto enorme affare dotato di tastiera e un mangiacassette che io mi chiedevo come cazzarola si facesse ad ascoltare musica da un robo praticamente muto e senza altoparlanti. Insomma mi regalarono un Commodore 64, quello che per farlo funzionare lo attaccavi alla TV smadonnando e vedevi la schermata blu con i comandi da scrivere “Load cazzi e mazzi” per far funzionare le cose.
Quindi zero Nintendo, zero giochetti fighetti.
No lo spirito proletario con venature pionieristiche spinse i miei a prendermi una sorta di proto-pc in cui dovevi sbatterti come un monaco medievale a scrivere le cose per far partire i giochi.
Che diciamocelo in terza elementare ti interessano i giochi mica le pippe da programmatore no?
Allora mi ricordo che da lì è cominciato tutto.
E imparavo a duplicare le cose a collegare stampanti e a cavare qualsiasi cosa da sto monitor blu con il led quadrato lampeggiante. Volevo diventare come quei tipici ragazzini da film anni 80 che tipo con due computer in croce costruivano astronavi, hackeravano i sistemi di difesa, spaccavano di brutto su tutta la linea. Io però capii abbastanza in fretta che non ero abbastanza nerd. Curiosone ok.
Ma a me di programmare annoiava il neurone, quello che imparavo a fare lo imparavo solo per il gioco.
Ma poi arrivarono i primi piccì quelli veri, quelli come il 286 con la VGA in bianco e nero, quelli che mio zio ne cambiava uno all’anno e per me era na figata, non vedevo l’ora arrivasse il finesettimana per lanciarmi a casa sua dove con mia cugina andavamo avanti in quella madonna di gioco che è “Monkey Island”. Schiumavamo alla grande e frammentariamente ci davamo alla speculazione edilizia con SimCity. Lei costruiva le città con dovizia di precisione, io non vedevo l’ora di scatenare qualche cazzo di disastro e far urlare le casse del pc.
Belle cose.
Poi però Luciano, che come sempre arrivò anni dopo, decise di prendere anche lui il primo piccì. No perchè intanto il sig. Commodore era diventato na roba da antiquariato che pure si era fusa la tivvù a cui lo attaccavamo. Quindi arriva sto 486 a casa e mentre Caterina se lo guardava torva come se potessero uscire da lì le peggio cose (spirito di preveggenza femminile, mai sottovalutarlo), io smanettavo come non mai modificando, facendo, disfacendo. Non mi piaceva leggere i manuali, io le cose le ho sempre imparate provando e arrivando a sudare magliette quando nei pomeriggi dopo scuola piantavo qualche vaccata sul computer che poi tassativamente alla sera, per il ritorno di Luciano, doveva essere funzionante.
Della famiglia sono sempre stato quello che risolveva le faccende tecnologiche. I miei erano e sono convinti che ci sappia fare, in realtà credo che basti semplicemente capire come funziona una cosa e questa funziona, non è che devi essere un ingegnere della Sony necessariamente. Quindi fra i vari aggiornamenti di cazzi e palazzi e le prove e gli smanettamenti arrivammo all’era di internet.
Internet io la volevo tantissimo perchè praticamente dovevo andare dal solito zio (che stava avanti) al fine settimana per andare a cercare i testi e gli accordi delle canzoni. Mi ammazzavo di quelle robe, per me internet era una banca dati allucinante, il parco delle meraviglie, io che ero abituato a farmi da me i riassunti di libri, lezioni da studiare ecc ecc, potevo trovare tutto lì.
Sì potevo.
Ma non mi fidavo, quindi facevo da me.
Però il ghiaccio era rotto e da lì scoprii mille robe interessanti ma anche inquietanti. Scoprii e studiai anche le comunità virtuali, la gente che si spacciava per altra gente dietro a dei nickname, gente che giocava dietro a cazzi e palazzi partendo da un qualcosa che poteva sembrare un gioco per finire ad un mix tipo insalata alla cazzo di cane di realtà e finzione.
Ste cose non mi sono mai piaciute, un pò come quando tutti avevano il Nintendo e io il Commodore.
E ora siamo qui, adesso, in questa realtà così spinta che anche se mi ricordo bene tutti i computer che ho avuto, mi rendo conto che adesso la gente non ha più bisogno di ricordarsi queste cose. Adesso come adesso vedo che c’è una curiosità in questo mondo, ma un pò diversa, un pò malsana, tanto che un pò comunque mi ha anche toccato qualche tempo fa.
La curiosità della scoperta, del capire come far funzionare le cose, è diventata la curiosità del farsi i cazzi degli altri, dell’ostentare qualcosa di sè in questo grande grasso puzzolente mondo chiamato “social network”. Gli status su Facebook parlano come fossero dei mini comunicati stampa personali di ognuno di noi, la gente sta a riflettere su quale possa o non possa essere la foto migliore da mettere come profilo, su cosa voglia o non voglia dire avere determinate persone fra i propri “amici”.
Che poi sto termine fa ridere perchè io un amico per strada se lo vedo lo saluto, so chi è. E invece no.
Il paradosso che siamo tutti più raggiungibili e vicini, fa sì che alla fine siamo anni luce lontani dal darci una semplice pacca sulla spalla o affrontare una discussione senza dover cliccare su un “mi piace”.
Siamo voyeur che di quello spirito curioso un pò pionieristico hanno mantenuto forse solo la posizione corrucciata sulla sedia davanti al monitor. Perchè tutto quanto diventa un gioco che troppi prendono dannatamente troppo sul serio e questo mi spiace.
Mi spiace che si cataloghino le persone come fossimo al supermercato, dove uno crede che osservando uno spazio web possa sapere e capire tutto di una persona. Perchè la curiosità è un’altra cosa che non ha a che vedere con questa morbosità di risposte e necessità di ostentazione. La curiosità uccise il gatto così!
Io osservavo quel cazzo di monitor blu del commodore 64 e capivo ogni volta solo una cosa: non ci capivo un cazzo di niente.
Però ci provavo, per me, era una bella sfida.
Perchè alla fine continua ad esserci la gente col Nintendo e con Jovanotti che si porta a casa le squinze e poi ci gioca non cagandosela di striscio.
Ma io sono quello del Commodore 64, che ancora crede che con due copertoni e quattro lamiere si possa fare un’astronave che ti porta in un’altra galassia.