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27 Giugno 2011
Maturità

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Maturità

Siamo a giugno e un tempo a giugno finiva quella cosa chiamata scuola. Quando ancora la chiamavo scuola, giusto poco prima che diventasse università e perdesse quel sapido sapore dei mesi (nella mia testa) invernali.
Presente? quel genere di cose da “lungo inverno”, nonostante alla fine poi il sole spunti anche. Però per me la scuola è sempre legata a quello e poi al giugno un pò agognato, un pò liberatorio, un pò che se ci penso mi viene in mente quando Forme e Toma facevano i foglietti di countdown, al liceo. Tipo che Toma li preparava e Forme ci metteva sopra il Q.M. che stava per “Quality Mark”.
Ogni tanto spuntano fuori quei bigliettini, che io tengo tutto, sono peggio di un personaggio triste in un film allegro per queste cose.

Giugno sa anche di maturità. Dico la maturità quella che fai a scuola, quella che quando finisci i benedetti cinque anni prima-seconda-terza-quarta-quinta ti trovi a fare e attorno alla quale si alimentano le peggio leggende.
Allora ogni anno apri i giornali e trovi i titoloni “dopo tre secondi sapevo il titolo del tema” o “quest’anno matematica era spissa” o mille interviste a studenti che escono fuori con l’aria provatissima, che affermano di aver preparato gruppi di studio coatto per giorni mesi, anni. Che sulla matura ci fanno pure i film dove c’è la pretesa di tirar fuori uno spaccato sociale: una volta c’era il militare adesso c’è la maturità.

Ecco, allora volevo dire la mia sulla maturità.
A me la maturità non ha fatto nè caldo nè freddo. Non sono stato a millantare di studiare per giorni-mesi-ore con gruppi di compagni ansiosi, non mi son fatto mille paturnie che nemmeno fosse na condanna a morte, non stavo a calcolarmi i decimi di punti che mi servivano per completare, non so, forse credo la tessera dei punti della Coop. No.
E non giravo in motorino la notte prima degli esami nè mi sparavo con chicchessia pipponi esistenziali tipo “chissà cosa saremo fra dieci anni”. No.

Io la maturità l’ho preparata che mi stavano demolendo mezza casa, quindi mentre mi ripassavo svariate robe battevo il piede a tempo col martello pneumatico. Ricordo che faceva caldissimo quell’anno, io stavo sotto da Otello perchè avevamo la casa smobilitata e il mio povero nonno si beccava pure le mie schitarrate imberbi. Il vero evento di quelle settimane, se si escludono i lavori, è stato quello della caccia al topo che si era infilato nella stanza in cui dormivo e che una sera, alzando gli occhi dalla mia tesina sul rock, mi sono trovato sul computer che mi guardava.

Il primo giorno di maturità, quello del tema, ero tranquillone. A me è sempre piaciuto fare i temi. Io non ho mai capito quelli che dicevano che per i temi dovevano studiare, o prepararsi o non so. Sinceramente il problema dei temi credo fosse solo che conoscevo un paio di individui che avevano difficoltà ad azzeccare le “è” accentate, ma oltre quello, che comunque davo nella mia testa per un dato assolutamente assodabile in individui di quinta liceo, non ne vedevo troppi altri.
Mi ricordo che presi il Satti per arrivare fino alla fermata di Via Ivrea. Mi ricordo che la mia maturità sapeva di Diana Blu. Perchè erano finite le Pall Mall e io col cazzo che compravo le Marlboro che costavano l’iradiddio. Allora mi dissi “faccio la maturità da muratore”.
Mentre arrivavo a scuola, vedendo fuori Toma, Forme e Scianca, mi ricordo esattamente, come fosse oggi, il sapore di quel tiro di Diana blu. Ovvero: non sapeva assolutamente di niente.
Mi dissero qualcosa su “sigarette da muratore”. Appunto.

Io ero incuriosito. Incuriosito dalla massa di persone in tensione, mentre col mio gruppettino me ne stavo lì a finire quell’aria compressa. Quando ci dissero che stavano per aprire, raggiunsi con passo flemmatico prima la porta, poi la scala, poi cercai di capire assieme agli altri dove cazzarola dovessimo finire. Infine arrivammo nel corridoione al primo piano, tutto verso l’ala destra dell’edificio, dove c’era gente che già si avvinghiava al banco come una lumaca al suo guscio.
Il tema non mi ricordo manco su cosa l’avessi poi fatto, so solo che come al solito lasciai il dizionario chiuso sul banco: da quando mi avevano scassato le palle all’inverosimile alle elementari-medie, mi capitava di rado doverlo aprire.

Insomma tema finito e mi chiamò Vale, la ragazza di quando un tempo le fanciulle mi sopportavano. Lì feci uno sfregio di quelli che ancora adesso Caterina mi rinfaccia (cioè non lo fa ma se glielo chiedo secondo me è così di brutto). Insomma finito il tema andai a mangiare una pasta a casa di Vale, invece che tornare a casa. Apriti cielo. Figlio degenere. Ricordo un ritorno a casa fra urla cazziatoni, cane abbaiante, martelli dei muratori. Mio nonno era un pò sordo e lo invidiai tantissimo.

Come da copione non mi sognai di aprire un libro, anzi sì. Cercai di leggere qualcosa sul dondolo del cortile ma il cane di allora non era molto d’accordo dannazione. Tant’è che arrivai al giorno dopo, che era quello della prova di matematica per noi del liceo scientifico. Lì la cosa si faceva più tesa. Nel senso che avevamo elaborato una tattica imbattibile per uscirne vivi. Almeno noialtri del gruppetto degli “Scipiones”. Che ora questa sarebbe una storia lunghissima da spiegarvi ma non ce la posso fare.
Allora c’eravamo io, poi Forme poi Scianca poi Menni, Toma e poi Nigro in aggiunta a chiudere lo schema. Dovevamo sederci a rombo con in mezzo il duo cervellotico Toma-Nigro. Io ero permeato dall’aura della mezza-sega-ex-gloria matematica oramai in disuso e disarmo, perchè quell’ultimo anno proprio non prendevo un canale di sta materia che odiavo a morte. Ci trovammo fuori. Io, le Diana, loro: noi. Stavolta lo sguardo era agguerrito, di quelli tipo partenza della maratona di NY, che te ne fotti che tanto ti prendono il tempo da quando passi sotto la scritta “partenza”, tu vuoi star davanti!

Allora aprono i cancelli e la tecnica funziona: ci piazziamo a rombo nei banchi. Non dietro. Non davanti. Nel mezzo, al di sopra di ogni sospetto, con le nostre fottutissime facce pseudo angeliche da “sono preoccupatissimo”. Tempo zero partono le occhiate trasversali di approvazione reciproca, fino al momento in cui cala un surreale silenzio, anche fra i bisbiglii di fondo.

La maledettissima presidente di commissione è in piedi, davanti alla cattedra. Scruta l’infinito. Anzi no. Scruta i banchi. Meglio: scruta noi. PEGGIO sta guardando me, cazzo!
Mi dico “fai una faccia mortificata” e non mi viene. Mi dico “abbassa lo sguardo pirla, non guardarla negli occhi, che fai la sfidi?” e rimango ipnotico piantato sul suo sguardo che scruta e credo che se ci penso ora tutti quanti, attorno a me, potessero sentirsi tanto scrutati.
Indica.
“Tu”
Quello davanti a me si auto indica “Io?”
Penso “Sì tu dai, sì tu dai”
Sento “No, quello dietro”
Io
Merda.

Pinzato e piazzato nel PRIMO banco davanti all’intera commissione, nella prova di matematica. Non solo la materia che pur odiando a morte mi fece vivere qualche barlume di gloria al terzo e quarto anno, ma ESATTAMENTE quella che, complici cambi di prof e altro, in quinta ha costituito un enorme, smisurato, emblematico buco nero.

Mi ricordo che due ragazze rischiarono di fregarsi l’esame, perchè per un contrattempo-incidente arrivarono dieci minuti in ritardo. Niente di grave, furono ammesse e piazzate nei due banchi davanti al mio; erano completamente in lacrime per la paura di essersi fregate l’esame. Mi ricordo che si girarono a guardarmi, dovevo avere la faccia della morte, se possibile, perchè mi chiesero, con gli occhi ancora rossi “tutto bene?” per ricevere un mio laconico “Siamo tutti nella merda!”

Fra Matematica e poi il calcio nelle palle della terza prova finii per racimolare trenta miserissimi punti degli scritti. E dire che i prof dicevano che io dovevo correre per il cento. A me non me n’è mai fregato niente, sinceramente. Mi ricordo che la prof ubriacona del liceo, mentre la aiutavo ad alzarsi osservando attonito il suo braccio coperto di lividi, pochi giorni prima mi disse “Rossetti tu sei uno di quelli che escono bene”. Io avrei anche voluto crederle non fosse che l’aria che mi arrivò in faccia dal suo aprir bocca sapeva di metano.

Non rimaneva che giocarmi la carta dell’orale. Avevo una di quelle tesine che possono solo fare due effetti: o cacare o piacere. Mi ero infatti messo in testa di tracciare una piccola cronostoria multimateria sulla musica rock e il contesto sociale nella sua evoluzione negli USA, dagli anni ’50 ai ’70. La cosa aveva riscosso un discreto interesse, visto che la matusa della commissione, una sorta di highlander dell’insegnamento, già presidente del Museo del Risorgimento, continuava a chiedere (non capivo se come minaccia o cosa) “quando passa quello della musica?”.
“Quello della musica” se ne stava fuori a rigirare libri mai aperti nelle ultime settimane, salvo per trovare per caso, all’interno della tesina, un foglietto con scritto “In bocca al lupo by Chiara”. Questo gesto di mia sorella lo trovai molto carino ma nel mentre un individuo un pò losco e con l’aria morbosa si avvicinava per chiedermi se avrei parlato degli Iron Maiden. Gesù.

Insomma la tesina andò bene, presi un tot di punti, giocai il jolly e manco usai l’aiuto dal pubblico. Già.
Ma non ho vissuto niente di stratosferico o di fuori dalle righe come si vede in certi film, non quasi mai fatto tutte quelle cose che ora si trovano scritte su facebook, una volta “ai miei tempi” (oddio sto usando veramente questo termine!!), lo si faceva sui diari.
Io i diari ce li ho tutti, anche se Forme si divertiva a disegnarmi cazzi giganti sopra, sperando che un prof un giorno, a caso, aprisse proprio QUELLA pagina.

Se ci penso mi viene da chiudere in maniera malinconica, tutti quegli individui citati qui sopra non li sento e non li vedo più, son diventati un pò come il sapore di quella Diana blu mentre salivo la rampa verso l’ingresso di scuola, il giorno del tema.
E io ho anche smesso di fumare.

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