“Cercate di non dimenticare.”
Questa scritta capeggia in ogni angolo dell’edificio che ci ospita. Non saprei se definire i suoi corridoi, le sue aulee, accoglienti o fredde. Semplicemente per quel che riguarda me e gli altri miei compagni, questi esistono e basta. Fa sempre un certo effetto ritornare in questo preciso posto, ogni volta. Chi sorride, chi si scambia impressioni sulla missione appena conclusa, chi “davvero non ci potevo credere che sarebbe andata così, questa volta”. Già, questa volta.
Mi soffermo a sedere nell’atrio dell’aula in cui si terrà un altro corso, per me l’ennesimo. Parole già sentite milioni di volte, eppure questa litania costante e sempre presente “Cercate di non dimenticare”. Sta scritta lì, anche in questa stanza, esattamente sopra il muro che sovrasta la cattedra da cui a breve uno dei Preparatori mi impartirà la dose di conoscenza specifica della sua materia, del suo ambito. Come tutti dovrei avere un programma, da qualche parte, che mi dice cosa devo frequentare, sopratutto in luce delle lacune e dei fallimenti mostrati nel corso dell’ultima missione.
Ormai è da così tanto tempo che sono qui, che so esattamente dove devo dirigermi, secondo un principio non scritto che potremmo chiamare istinto, se solo si volesse cercare di rendere il concetto più accessibile e definibile in qualche modo. Da quanto non vengo scelto? Da quanto vago per questi corridoi incrociando altri, come me, in attesa che il bracciale che tutti portiamo al polso sinistro si illumini dicendoci “sì, è ora, preparati a partire”? Al tatto è liscio e asettico, come quasi tutto qui dentro, come tutti noi. A volte hai l’impressione quasi di riuscire a riconoscere un volto, in mezzo ai tanti, ma si tratta di un’illusione. Qui non puoi fare realmente conoscenza con nessuno, qui il tipico spirito che potremmo chiamare “di cameratismo”, si ritraduce nei momenti di istruzione collettivi, negli ampi riposatoi che ci offrono un momento di quiete. Incontri qualcuno, magari eccitato per la chiamata o stanco per il ritorno, accogli i suoi pensieri, annusi, materialmente annusi, l’odore delle sue aspettative o dei suoi ricordi. E poi è già nuovamente un volto in mezzo ai tanti che ti scorrono vicino.
“Cercate di non dimenticare”. Inizia così la lezione. L’aula si è riempita, non me ne sono dato troppo conto. Sempre quella maledetta formula. Perchè? “Perchè una volta in missione, tutto questo, tutto quello che qui studiate e apprendete, non varrà più nulla, si piazzerà ad uno strato di voi che potremmo definire subconscio.” Questa è sempre stata la risposta, quella che ogni Preparatore ha pazientemente fornito ai nuovi o a quelli che semplicemente avevano dimenticato così a fondo da essersi portati il fardello dell’oblio anche una volta ritornati alla base. Ne ho fatte io di missioni, ne ho fatte parecchie. Non ho mai tenuto il conto, anche perchè è impossibile. Come ho detto certe volte io e gli altri ritorniamo ad uno stato così provante e provato per cui fatichiamo anche solo a realizzare di essere nuovamente al centro di preparazione e assegnazione. La durata delle uscite è variabile, non è mai per tutti uguale, dipende dalle capacità di ricordare, dipende dalle circostanze, a volte basta uno stupido inconveniente, una di quelle che per capirci definireste tutti “una cazzata”, per richiedere l’immediato ritorno. Per alcuni di noi il ritorno ha il sapore di una sconfitta, per altri porta in seno il sapore di esser riusciti comunque a dare il massimo. Io non so come sia per me, per me è sempre diverso. Ogni volta.
La voce del Preparatore mi entra dentro. Letteralmente. Posso fare a meno di ascoltarlo mentre mi perdo nei pensieri e nelle immagini delle esperienze passate. Anzi loro stessi ci consigliano di concentrarci sul nostro vissuto, su quello che ci è capitato “là fuori”. Ogni sillaba si attacca ad un ricordo come un anticorpo ad un antigene, a volte in maniera così forte da generare un senso di soffocamento, come ci fossero migliaia di bocche affamate attaccate ad una parte del corpo. Come adesso. Devo uscire.
Nessuno si sorprende quando uno di noi esce da uno dei gruppi di somministrazione di massa. A volte veniamo chiamati singolarmente per lavorare su alcuni aspetti specifici, quelle sono le sedute peggiori, in cui si scava fino a mettere a nudo le parti più scoperte di ognuno di noi. E’ violento. E’ terribile. E’ necessario, ci dicono, per essere pronti a tutto.
Lo guardo. E’ da qualche istante che sta facendo così. Tempo addietro mi sarei precipitato verso l’ala ovest, quella della “sala di chiamata”, adesso osservo il mio bracciale lampeggiare con la mente completamente svuotata e senza un’emozione. Mi chiamano. Tocca a me, si torna là fuori, si torna in missione.
I corridoi si riempiono mentre raggiungo l’altra parte del nostro edificio, sento qualcuno toccarmi, dirmi qualcosa mentre il “bip” intermittente della luce del bracciale si riverbera nelle espressioni di volti tutti uguali e diversi. Raggiungo la porta, manco a dirlo reca la scritta “Cercate di non dimenticare”. Entro.
Ricordo bene la procedura, non è niente di troppo semplice o troppo complesso, gli addetti al lancio di trasferimento me la ripetono come fosse la prima volta, mi danno raccomandazioni sulle turbolenze e sugli sviluppi, dicendomi chiaramente di non avere timore. Non ti dicono mai dove sarai assegnato, solitamente cerchi di capirlo a spanne dal protocollo di trasferimento che ti viene fatto osservare poco prima di entrare nel condotto. A seconda, cerchi sempre di riportare alla mente un concetto concreto e tangibile della parola “tempo”, per poi farti un’idea. Io ormai non lo faccio più. Ormai la mia unica aspettativa è quella di poter finalmente riabbracciare l’oblio, quello che che qui ha i contorni dei volti raggrinziti dei preparatori mentre lo condannano come male supremo.
Mi dicono che è il momento, si apre il portellone di lancio. E’ tutto ok, fanno segnale di entrare e come ultima cosa mi urlano “Cerca di non dimenticare” poi. Il Buio.
Il buio ti avviluppa come un cuscino comodo, il buio che nel Centro non vedi mai, diventa il collante per tutti i pensieri che si affollano cercando un senso. Quanto durerà tutto questo? Quanto ci metterò ad arrivare? Sono passati pochi istanti? O sono passati degli anni forse. Nessuno di noi lo sa nemmeno io finchè eccola.
Si schiude come un uovo, rompe dapprima un minuscolo punticino e si fa largo in maniera dirompente. La luce. E in lontananza, delle voci.
– Torino, ospedale Sant’Anna –
“Forza signora è importante ora che lei SPINGA al mio tre, d’accordo?”
“Dai tesoro che stai andando benissimo”
“AHHHHRRGHHHH CHE CAZZO DICI BENISSIMO STO PARTORENDO IO UN MELONE NON TU….”
“Signore, lei le tenga la mano e basta, forza Francesca spingi, falla nascere!!”
Un uomo si fa stritolare la mano da una donna, un’altra donna assieme a degli infermieri la assiste.
“Eccola! Francesca è bellissima! Senti come strilla, hai visto? Sei stata bravissima!”
E’ nata una bimba: la missione.