“Il mondo è la volontà che conosce se stessa”.
Gli rimbomba in testa, retaggio di un passato remoto che odora di mine di grafite consumate su fogli di carta a quadretti mezzo stropicciati. Liceo, secondo banco sulla sinistra, ora di filosofia. Si ritrova a pensare per un istante a quanto siano strani i meccanismi di autodifesa del cervello umano. Visualizza l’immagine di una squadra di pompieri indaffarata con manichette ed idranti a spegnere l’incendio all’interno della sua corteccia cerebrale. “L’automiglioramento è masturbazione, invece l’autodistruzione …” Da dove viene questa? Ok. Sì. Odore di sigaretta, sensazione del proprio sedere piatto schiantato sul sedile rigido di un pullman, percezione tattile delle pagine di un libro di cui ricorda con precisione la porosità.
“Il mondo è la volontà che conosce se stessa”. Quando aveva sentito questa frase, lo ricorda perfettamente, aveva drizzato la testa come le antilopi della savana quando sentono il vento portare l’odore di un predatore. Non si era sentito colpito, non capitava mai che si sentisse in quel modo. Piuttosto aveva provato la seducente sensazione che quel pensiero fosse stato espresso esclusivamente per lui, che Schopenhauer l’avesse partorito affinchè arrivasse in quell’aula, in quel preciso giorno, a quella precisa ora. Una sorta di messaggio in bottiglia telecomandato nello spazio-tempo a ricordargli cosa lui fosse. “Se il mondo è la volontà che conosce se stessa, io sono la volontà che ne conosce la fine”.
Quando l’aveva realizzato? Quando si hanno i primi ricordi ponderati della propria vita? Tre, quattro anni? Era sempre stato così? I suoi genitori l’avevano capito e si erano spaventati? Avevano mai desiderato abbandonarlo? Non l’avevano fatto. Lui sapeva non l’avrebbero fatto. Era nato così: con la capacità di vedere la fine delle cose. Non tanto un esercizio premonitorio o legato a qualche oscuro misticismo, no. Semplice consapevolezza. Un Re Mida che qualunque cosa o persona conoscesse e toccasse, si spiegava innanzi ai suoi occhi come una cartina topografica di cui aveva sempre la chiave di lettura. Non doveva concentrarsi o impegnarsi. Era semplice come constatare che il sole sorge la mattina e tramonta la sera. Non pagava questo suo talento con il sangue di qualche rinuncia o con gli oscuri tormenti di qualche supereroe da fumetto. Nella sua vita aveva semplicemente sempre saputo come sarebbero andate a finire le cose.
A volte si domandava se questo, di fatto, non modificasse il finale stesso delle cose. La consapevolezza come strumento di controllo della propria esistenza. Aveva giocato con questo dono, aveva fatto esperimenti per testarsi, per portare al limite il proprio desiderio latente di poter dire, almeno una volta “non l’avevo previsto”. L’adolescenza fu un laboratorio a cielo aperto per l’esplorazione dei propri limiti: anche laddove lui non c’entrava praticamente nulla, dove quindi il suo giudizio o presenza fossero ininfluenti, lui non sbagliava. Vedeva persone attorno a sè prendere scelte di cui già vedeva nel dettaglio l’epilogo, viveva ogni istante con amici, fidanzate, colleghi di lavoro, con cui sapeva esattamente dove ci sarebbe stata la stazione di capolinea. Si immaginava come un machiavellico capotreno che sapeva la stazione di partenza e quella di arrivo, ignorando però come ci si sarebbe arrivati, all’ultima stazione.
“Forse è questo che mi ha sempre impedito di impazzire”. Si era ritrovato a pensarlo più volte. Se anche avesse saputo il come sarebbe arrivata la fine, per quali strade, la vita avrebbe ulteriormente perso consistenza che lui trovava già di per se insipida. Conoscere dove arriverai ma non sapere per quali strade. Questa ogni volta la sfida e l’eccitazione accolta come quando a sei anni fu bendato da suo padre e portato in un grosso parco giochi per la sua festa a sorpresa. Sorride allo specchio, ora, ripensando a quel giorno. Ripensando a come la gioia gli fosse stata data non dalla sorpresa del posto, lui già lo sapeva, bensì dall’eccitazione del viaggio. Se gli “alla fine” non lasciavano spazio a sorprese, erano i “nel mentre” a stimolare la sua fantasia. Chi riesce a fantasticare riesce anche a sognare, pensa. Se uno smette di sognare muore.
Stretta di mano “Ciao, piacere Francesco” e sapere che un bel giorno avrebbero litigato per un debito non pagato. Baci sulle guance “Ciao io sono Elena” e vedere chiara l’immagine di lei a letto con un altro mentre lui rientrava, nella più squallida delle parodie alla “Cielo il mio ragazzo!”. Odore d’inchiostro, una firma “Benvenuto in azienda” e sapere che quei volti sorridenti e speranzosi, un giorno gli avrebbero fatto sapere che non avevano più bisogno di lui. Era diventato così preciso nelle sue certezze che poteva addirittura determinare il colore delle scarpe che avrebbe indossato Francesco, prefigurare e recitare le battute giustificatorie di Elena come se avesse avuto in mano un copione e avvertire l’odore dell’ufficio del personale. Se avesse dovuto rispondere alla domanda “quale sensazione domina la tua vita?” avrebbe certamente risposto “la curiosità”.
“L’Atarassia, la perfetta pace dell’anima che nasce dalla liberazione delle passioni”. Altre frasi che il cervello lancia contro lo specchio mentre si riflette un’immagine che stenta a riconoscere. Era così, un tempo. Era così, fino a ieri. “Atarassico” sembra una parola studiata apposta per far rima con “Giurassico”. Quant’è passato? Un giorno? Sembrano ere geologiche, sembra che l’orologio che si riflette sul comodino della stanza da letto dietro di sè sia stato manomesso per andare più lento.
Alza una mano, la guarda. Sta tremando. Non fa freddo. Controlla allo specchio, sì è lui e sì è la sua mano. Ha sempre avuto gli occhi così grandi? Così aperti? Si morde un labbro mentre una mano sale istintivamente ad accarezzarsi la mandibola, come avesse appena ricevuto un colpo. Il colpo l’ha ricevuto, lo sa. Quant’è passato? Da quando era così comodo nella sua atarassia. Atarassico fa rima con Giurassico, decisamente. Un giorno. Ieri. Il meccanismo che s’inceppa, all’improvviso il non riuscire più a vedere la fine. Si era sforzato. Come i supereroi dei telefilm senza poteri. Niente. Era arrivata a colpirlo in faccia, come un treno. Come puoi dire “mi ha colpito come un treno”? Non puoi sperimentare un’esperienza del genere e poi raccontarlo. Maledetta testa. Lo sta difendendo e ci riesce male, non è stata abituata a questo. Per la prima volta sente il sapore metallico della paura, lo rigira nella bocca come fosse un vino pregiato che non vuol sprecare.
Rimane fisso a guardarsi allo specchio. “La faccio finita”, pensa. Il cuore accelera, le pupille diventano la capocchia di uno spillo, vede il riflesso della paura e non vede la fine. Poi sente una presenza alle sue spalle. Ora la vede, c’è anche lei nell’immagine restituita dallo specchio. Lo abbraccia in silenzio senza dire nulla e il suo cuore rallenta. Progressivamente, lentamente, tutto rientra. Sente un rivolo di sudore scendere dall’attaccatura dei capelli alla base della nuca. Deglutisce. Lei lo guarda e cerca il suo volto sullo specchio, l’orologio segna le 3.44 del mattino.
“Ho paura” le dice.
“Sei innamorato” risponde lei.
“Per la prima volta non vedo la fine, vedo solo la strada” lui si gira.
Lei non dice nulla gli prende una mano e lo porta a letto.
“Il mondo è la volontà che conosce se stessa”. Schopenhauer, alla fine, aveva ragione.