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17 Ottobre 2015
Fuga dal Campo 14

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Fuga dal Campo 14

Blaine Harden è stato per anni corrispondente per il Washington Post dall’Africa, Est Europa e Asia. Proprio dall’Asia arriva la storia di Shin Dong-hyuk, che il giornalista racconta in un libro impossibile da leggere con distacco. Ad un certo punto vorresti fosse solo una storia, un romanzo, una scenografia orchestrata ad arte per fare da apripista a qualche film da Sundance Film Festival. Invece no.

Shin Dong-hyuk è un ragazzo nato in Corea del Nord, uno dei paesi ad oggi governato da uno dei regimi più oppressivi che si possono annoverare sullo scacchiere internazionale: quello della dinastia di Kim Il-sung, di cui Kim Jong-un (attualmente in carica) è nipote. Shin vede la luce nel Campo 14, uno dei numerosi campi di lavoro della Corea del Nord in cui sono rinchiusi tutti i prigionieri politici, antagonisti, veri o presunti “nemici del partito” e le loro famiglie. Già, perchè nella distorta visione del regime Nordcoreano, la colpa dei padri ricade sui figli e su tutti i diretti discendenti fino alla terza generazione.

I campi di lavoro diventano così il modo per redimere il proprio “sangue sporcato dal peccato originale”. Quella che emerge dalla penna di Harden, in un lavoro minuzioso di interviste a più riprese fatte a Shin, è una realtà di cui a fatica riesco a trovar le parole per dare una definizione. Agghiacciante, insensata, sadica, desolante. Sono solo alcune delle parole che mi vengono in mente adesso, mentre sfoglio le varie sottolineature marcate e scuoto la testa davanti alla presa di coscienza che tutto questo avviene oggi, nel nostro mondo, nel 2015.

Il mondo di Shin dalla nascita non conosce concetti come famiglia (i genitori sono stati “scelti” nel campo per il “matrimonio-accoppiamento” e le regole prevedono, in questi casi, possano vedersi una volta l’anno), amore o amicizia. Perchè ogni regola che viene inculcata ai prigionieri, mira sistematicamente a tagliare alla radice ogni idea di coscienza individuale o amor proprio. La violenza, il tradimento reciproco fra compagni e familiari, la totale destrutturazione dell’ “io”, sono sottolineati in ogni momento della giornata.

Chi, come Shin, è nato nel campo e quindi non ha mai avuto idea di cosa ci sia fuori dal perimetro di recinzione elettrificata, assume l’aspetto di quei pesci nati in cattività che conducono la propria esistenza in un acquario, senza neanche sapere minimamente che esistono i laghi o gli oceani.

Non voglio svelare altri dettagli del libro, perchè penso che la storia di Shin sia una storia che vada letta, per quel che è costata a lui raccontarla, per quel che è IMPORTANTE che ognuno possa trarre da essa levandosi dal mucchio di chi un giorno dirà “ma io sinceramente non sapevo, non credevo”. Siamo abituati a volgere lo sguardo alla seconda guerra mondiale, quando sentiamo parlare di olocausto, eppure se ne consuma uno, ogni giorno, ancora adesso.

A differenza dei sopravvissuti ai campi di concentramento, Shin non era stato strappato a un’esistenza civile e costretto a una discesa all’inferno. All’inferno ci era nato e cresciuto, e ne aveva accettato i valori. L’inferno era la sua casa.


Un Cantico per Leibowitz

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