Spulciare, in molti casi, è la parola d’ordine che mi porta a nuovi libri. Libri che magari non avrei mai trovato altrimenti. “Stoner” è arrivato spulciando, continuando a trovarlo in citazioni collaterali che alla lunga han fatto breccia. Uno dei pochi libri su cui, prima di iniziare la lettura, ho affidato qualche breve impressione preliminare con la sinossi tipica della quarta di copertina.
Son partito da lì, aspettandomi forse di rimanere un po’ annoiato dalla lettura, ritrovandomi dopo poche pagine ad avere torto marcio. Quelle situazioni in cui aver capito di vedere un preconcetto fatto a fette e gettato in pasto alla curiosità va a braccetto con il progressivo trasporto nella lettura.
Quella di William “Bill” Stoner è la storia romanzata di un’epoca, di un uomo che a cavallo fra due secoli trova a misurare il proprio esistenzialismo con quello del mondo che lo circonda, che freneticamente si evolve riportando però il ricorso storico del “ciclico-sempre-uguale”. Non c’è da aspettarsi un’epopea letteraria, un eroe dalla vita sconvolgente che di rimando auspica elevare pensieri di ammirazione. Non ci sono neanche situazioni sovrastanti, verosimilmente iperboliche, che catturino chi legge in un vortice di compiacimento.
No. Quella di “Stoner” è una storia semplice. La storia di un ragazzo che partito dalla campagna si ritrova professore universitario, passando in mezzo ad un matrimonio, percorrendo una strada lastricata di fatica e di sforzi continui alla ricerca di qualcosa. Il grande punto del romanzo per me è proprio questo: cosa cerca, nella sua vita così semplice e comune, William Stoner? La felicità? L’appagamento professionale? La piena comprensione del proprio tempo?
Sì. Tutte queste cose. Per quanto il solo desiderarle accompagni il protagonista ad una sensazione perenne di senso di colpa strisciante. Stoner è ciò che si potrebbe definire uno “sconfitto”, sconfitto senza neanche aver provato a battersi per le battaglie che contano, sconfitto per aver realizzato ogni volta a posteriori di aver invece combattuto e “vinto” le battaglie sbagliate.
L’altra parola che mi si è stampata in testa alla chiusura di questo libro è “maledizione”. Quella che sembra circondare il protagonista, quella che a tratti fa gridare ad un complotto del destino, laddove però emerge chiaramente come il chiamarlo in causa sia solo cercare una giustificazione a Stoner, di cui John Williams riesce con maestria a far innamorare il lettore.
Il libro l’ho trovato bello. Forse direi anche bellissimo. Fa riflettere, fa pensare. In diversi tratti mi sono ritrovato a leggere quasi con apprensione, con l’impulso a correre dietro alle vicende di Stoner, con la voglia di gridargli in un orecchio “fallo!” oppure “no!”. Forse perchè Williams ci ricorda che in ogni lettore c’è un pezzetto del suo personaggio, in ogni vita ci sono delle sliding doors che è bene varcare cercando di essere consapevoli del proprio “io”, più che degli eventi che concorrono a determinarlo.
«Siamo stati felici, vero?» – all’imperfetto – «Eravamo felici, più felici di chiunque altro». Fino all’inevitabile futuro.