Da super infognato del genere “post apocalittico”, il libro di Mary Shelley era la pietra angolare che mancava alla mia bibliografia. Perché “pietra angolare”? Perché a detta di tutti “L’ultimo Uomo” é il primo romanzo del genere, da molti considerato l’opera più matura dell’autrice di Frankenstein.
Non è una lettura semplice e scorrevole. Affatto. I tre volumi in cui si divide il romanzo sono profondamente intrisi dello stile barocco e romantico in cui tutti i personaggi, protagonista in testa, sguazzano nel tentativo di non far affogare una trama che a mio modo di vedere è molto valida.
Qui, però, è d’obbligo una precisazione. Pensare di giudicare questo libro, di valutarlo e approcciarlo con la mentalità con cui si farebbe verso qualsiasi testo della nostra epoca recente, sarebbe un errore di forma madornale.
Stiamo parlando di un’autrice, di una donna di inizio ‘800 che prova a scrivere un’opera di sci-fi ambientandola nel 2090 e lo fa non solo con gli strumenti e l’immaginazione i cui limiti si scontravano con quelli della sua epoca, ma anche in un ambiente decisamente inclemente verso l’emancipazione femminile nell’ambito della letteratura (Shelley ricevette forti critiche per questo suo lavoro).
Più volte, durante la lettura, nei passaggi descrittivi o nelle iperboliche esagerazioni dei rapporti fra i vari personaggi, mi sono dovuto “richiamare all’ordine” per non perdere di vista il contesto in cui queste si inserivano; sopratutto, chi si celava dietro la figura di Lionel Verney, protagonista della storia di Shelley.
Con l’ “Ultimo Uomo” Shelley getta già quelle che saranno le basi fondanti la letteratura e la cinematografia post-apocalittica. Interessante è subito il prologo: la storia parte dal ritrovamento di una serie di scritti in una grotta vicino Napoli. L’anno è il 1818, ma gli scritti narrano una storia che suona come una profezia, ambientata nel 2090. Da lì l’autrice ci fa conoscere Lionel Verney, che rimarrà l’ultimo uomo sulla terra (o meglio, così arriverà a credersi) attraverso un percorso costellato di sfide, battaglie e atti di coraggio.
Come anticipato, l’aspetto più interessante della narrazione è stato per me riscontrare i germogli distintivi del genere: l’avvento dell’elemento apocalittico, le reazioni degli uomini davanti all’inevitabile, i conflitti sterili che si innescano, quasi lasciando in secondo piano il reale problema che invece coinvolge tutti. Shelley abbozza uno studio sulla psicologia dei vari gruppi di persone ma per lo più lascia emergere una sua visione ideale (più corretto dire idealizzata) di come l’uomo, alla fine, faccia prevalere sempre la razionalità.
Il famoso “perturbante” di Freud, diventa così un elemento che acuisce ed esalta quelle qualità con le quali Shelley connota gli uomini della sua epoca e, di riflesso, anche il suo protagonista.
È una lettura interessante e nonostante, come detto, lo stile e la forma siano decisamente poco scorrevoli (tanto da far percepire il libro come almeno il doppio delle sue pagine), penso assolutamente meriti una lettura da parte di chi è cultore del genere.