Ormai si è capito che io su diverse cose arrivo in ritardo. Tipo la famosissima serie Netflix “Orange is the new black”, che ha avuto tempo di ricevere millemila riconoscimenti, centordici attestati di stima e arrivare alla season number five, prima che il sottoscritto iniziasse a vederla.
E purtroppo anche qui è capitato che solo dopo alcune puntate ho realizzato che la biondissima Piper, protagonista della serie, in realtà era l’alter ego di una biondissima Piper realmente esistita, realmente finita in carcere con una pena di quindici mesi per un coinvolgimento (seppur marginale) in traffico di droga.
A piena serie in corso mi sono quindi fiondato a cercare il libro, per soppesare sulla bilancia, come sempre in questi casi, quale delle due versioni fosse riuscita meglio. Come se su un argomento del genere, stupido io, si potesse tranquillamente applicare il principio che vale nel passaggio fra un’opera finzionale romanzata e un’opera finzionale sceneggiata e messa sul piccolo/grande schermo.
Wrong. La serie TV è una serie TV, il libro, invece, racconta una storia reale, di una persona reale, che si è confrontata realmente con il sistema carcerario ammeregano sbattendo la faccia e la sua umanità su un muro di contraddizioni e assurdità di sterile no-sense.
La vita non è una serie TV e questo qualsiasi persona un minimo sana di mente non faticherà ad ammetterlo, questo è quindi l’assunto di base per cui è impossibile pensare di comparare le due cose. Il libro della Kerman offre certamente molti spunti che si possono ritrovare nell’eterogenea combriccola di detenute di Litchfield, ma è un racconto biografico che trascende quei codici e standard della finzionalità. Non troviamo un “villain” per eccellenza, non troviamo macchiette narrative che diventano dei Topos viventi.
È un racconto di carcere e vita di carcere vera, proprio per questo immediatamente più umano e spoglio di quella patina lucida che irrimediabilmente arriva a contraddistinguere ogni serie TV. La Piper del libro è più pragmatica, più realista (sicuramente meno irritante di come alla lunga diventa la sua doppelganger-Netflix) e vive quel che le capita attorno da essere umano pronto a calarsi, nonostante la difficoltà, in un mondo pieno di inaspettate alleate pronte a costituire, con lei, un “fronte comune” per andare avanti nelle difficoltà.
Il libro l’ho apprezzato, non è una lettura di quelle epiche o epocali, ma è un interessantissimo spunto per cercare di capire ed “entrare” dentro un sistema complesso e contraddittorio come quello delle carceri americane. Penso che la Kerman abbia sentito quasi il bisogno di rendere partecipe l’opinione pubblica di certi fatti, perché decisamente scottata dalle esperienze provate in quindici (poi accorciati a tredici) mesi di detenzione. Quello che trovo significativo e importante è che lo stesso principio sia quello che anima la serie: aprire un palcoscenico su una realtà piena di necessità di intervento a più livelli, strutturali, organizzativi, gestionali.
Insomma chi scrive “nulla a che vedere con la serie, il libro annoia”, dico: la vita non è una serie TV, giudicate e approcciate questo libro per ciò che è realmente.
Andate in pace amen.