Niente da fare, sempre lo stesso copione: prendi un libro, vedi che è di Stephen King, lo apri, lo inizi e ad un certo punto inizi a fare “no” con la testa sussurrando “maledetto bastardo, ce la fa e ce la fa sempre”. A fare cosa? Semplice, a prenderti e trascinarti all’interno di una storia, coinvolgendoti in maniera così profonda che non c’è film o 3D effects che possano tenere.
Di King ho sempre apprezzato l’abilità narrativa, quella che gli permette, partendo anche da dettagli che lì per lì il lettore giudicherebbe “inutili”, di costruire un vero e proprio universo finzionale in cui piano piano, lentamente, spinge a piè pari nella storia tutti quelli che scorrono i paragrafi prima con distacco, poi sempre più con crescente coinvolgimento.
Questo penso sia il suo talento e tratto fondamentale (almeno in tutte i romanzi, per lo più “datati”, che mi è capitato di leggere) e anche Pet Semetary non sfugge alla premessa.
Il libro fin da subito ha riportato alla mia memoria un lontano anno 2001, in cui mi trovavo in una piuttosto fredda aula universitaria della sede distaccata di Ivrea a seguire Letteratura Angloamericana. La nostra prof dell’epoca (sempre sia lodata per avermi fatto scoprire Emily Dickinson, ma questa è un’altra storia) aveva pensato di dividere il suo modulo in due: da una parte, lei, si sarebbe occupata dell’ambito cinematografico; dall’altro un suo collega di storia del cinema avrebbe analizzato con con quello del grande schermo. Ok ma di cosa? Tenetevi forte: il tema era il gotico americano. Boom.
Senza stare a rifare tutto il corso di lezioni sul tema, il sunto principale della faccenda era il seguente: tramite il gotico, la sci-fi e l’horror in generale, gli ammeregani hanno sempre cercato di portare in letteratura e immagini quelle che erano le grandi angosce sociali della loro epoca. Quindi ambientazioni magari intime e familiari, dove tutti ci si sente in qualche modo protetti e schermati, che diventano terreno fertile per l’elemento disturbante, drammatico e in grado di sconvolgere completamente l’assunto di partenza.
Pet Sematary ripercorre esattamente questi passi. Louis è un medico con una famiglia media da pure american dream: una moglie casalinga, una figlia curiosa e un piccolo maschietto che muove i primi passi nella vita. Dalla caotica Chicago il quartetto si troverà catapultato in una grande casa di campagna nel Maine, per diventare il responsabile medico dell’Università locale. Ed è proprio da questo contesto bucolico, in cui tutto non può far altro che andare bene, con le stagioni a scandire ritmi di momenti felici, che piano piano si sviluppano gli elementi inquietanti del racconto. Prima sono semplici avvisaglie, poi si fanno via via più concreti, fino a ribaltare completamente lo status quo delle cose.
Come detto King è un maestro nel rapire il lettore e portarlo nei suoi mondi, al livello che trovo si arrivi sempre ad un certo “punto del non ritorno” nei suoi libri; quello in cui, sostanzialmente, non si può fare a meno di leggere pagina dopo pagina, quasi con l’urgente ansia di sapere “come andrà a finire”.
Pet Sematary è un libro sulle paure, su quella primordiale della morte, su quella delle conseguenze inaspettate che potrebbero determinare i nostri desideri. Il libro non è solo una storia ma una bella allegoria di vita dai molteplici spunti di riflessione, raccontato per immagini così vivide e reali che più volte si ha l’impressione di essere davanti agli eventi.
Insomma ad oggi King rimane il “The King” e non tradisce! Sono curioso di vedere il film ma ho paura, come sempre.