Sapete qual è quell’essere che, nell’universo, è in grado di fare schifo ad altissimi livelli ed essere il perfetto carnefice di se stesso? L’essere umano. Ray Bradbury lo sa e per non dirlo in maniera brutale ed esplicita (cosa che nel 1950 sarebbe stata eufemisticamente poco “politically correct”) tira fuori questa serie di racconti, che apriranno le porte a quel capolavoro di Fahrenheit 451 (di cui è possibile, fra l’altro, trovare dei rimandi già in questo libro).
Dunque, “Cronache Marziane” o “The Martian Chronicles” ci schiaffeggia con ventotto racconti brevi a tema “colonizzazione del pianeta rosso”. Sono tutti micro episodi collegati fra loro, riferibili ad un contesto che in senso cronologico parte dai primi approcci a Marte del genere umano e prosegue con la colonizzazione coatta e tutto ciò che ne consegue. Se vi aspettate un libro di fantascienza in senso stretto, forse avete sbagliato la vostra ricerca in biblioteca. Se vi aspettate un libro con un sotto testo da paura, pieno di critiche alla presunta superiorità intellettuale con cui da sempre la razza umana si masturba, bene, fermatevi pure e iniziate a gustarvi il romanzo.
Per chi conosce la serie “Black Mirror”, l’effetto che ho avuto leggendo “Cronache Marziane” è il medesimo: un futuro ipotetico e distopico (immaginato nell’allora 1950) che con una proiezione nel futuro di cinquant’anni colloca gli uomini in un nuovo contesto come la possibilità di colonizzazione di un nuovo pianeta, dotandolo di tutta una serie di ipotetici progressi tecnologici che però si misurano con i soliti atavici vizietti che ci contraddistinguono come marchio di fabbrica. Superiorità, antropocentrismo spinto, mancanza di rispetto di ciò che è “altro” o “diverso”, tendenza a considerare legittima la proprietà di ogni luogo non reclamato in cui noi si possa finire.
Insomma Bradbury parte dal 1999 e arriva fino al 2026 ipotizzando scenari in cui noi, intesi come razza umana, non usciamo fuori troppo bene. Incapaci di apprendere dai nostri errori già commessi su un pianeta, la Terra, spremuto fino all’osso (ed era il 1950 quando scriveva!) e pronti ad utilizzare un nuovo pianeta solo per ripetere all’infinito i meccanismi egoistici, preludio di una ciclica e annunciata rovina.
Il libro merita veramente tanto, perché se pensiamo, ancora una volta, al contesto in cui è stato scritto, immaginare un futuro del genere è da parte di Bradbury (e dei tanti, validi, scrittori sci-fi dell’epoca) una prova creativa incredibile.
“Garrett?” disse Stendahl “sa perché le ho fatto una cosa simile? Perché lei ha bruciato i libri di Poe senza averli realmente letti. Lei si è accontentato del parere di altri, secondo i quali bisognava darli alle fiamme. Diversamente, si sarebbe accorto di quello che le stavo preparando, pochi minuti fa, scendendo qui sotto. L’ignoranza è fatale, signor Garrett.”