Non so bene come questo libro sia finito nel mio proverbiale “elenco di lettura”. Il famoso “elenco di lettura”, quello che ogni volta che qualcuno mi suggerisce un libro tiro fuori un po’ a mo’ di giustificazione, un po’ perché ha un suo principio di verità. “Ah dai mi segno questo titolo, lo metto in coda al mio elenco di lettura”. Suona quasi come se facessi il lettore ossessivo compulsivo di professione. In realtà più che di “coda” o “elenco” dovrei parlare di “enorme calderone incasinato da cui pesco a random qualcosa sulla base del mio umore”. Però è lungo da scrivere così, troppo, anche per un virgolettato.
Non avevo mai letto nulla di Paul Auster prima di “Follie di Brooklyn”. Non so se mi ha attirato il titolo, l’aspettativa che ha suscitato in me o semplicemente il fatto che qualche mese fa ho messo entrambi i miei piedi a Brooklyn. Comunque, il fatto è che nel vuoto che segue la chiusura di un libro sul mio Kindle, Paul Auster ha spinto il mio dito ad iniziare il suo romanzo. In qualche modo. Quindi eccoci qui.
Se “Follie di Brooklyn” fosse un film, me lo immagino come un controverso film di Woody Allen. Pieno di tutte quelle battute di umorismo un po’ jewish (come il protagonista) e situazioni al limite del paradossale, però sempre spacciate come assolutamente verosimili. Sarà, se quelle di questi personaggi dovrebbero essere vite plausibili allora la mia, di vita, è decisamente ordinaria e dovrei come minimo amputarmi un dito e piantarlo in giardino sperando cresca un albero degli schiaffi.
Sì, lo so, sono sarcastico e quando sono sarcastico vuol dire che ho preso in mano la mia biro rossa da maestrino-di-mierda e sono pronto a fare qualsiasi appunto al tipo di turno. In questo caso Paul Auster.
Partiamo dalle cose positive: il libro è scritto super bene, Paul (prendiamoci sta confidenza) scrive in maniera super e non possiamo contestargli nulla (adesso uso il plurale? esci da questo corpo!). La sua è la storia di Nathan Glass, che dopo aver preso il cancro decide che trasferirsi a Brooklyn lontano dalla ex-moglie sia il modo migliore per fare come quei vecchi capi indiani, che quando decidevano che era ora di morire si auto-esiliavano come i gatti in posti impensabili. Il dettaglio è che Nathan, descritto quasi come un uomo di novant’anni, di anni invece ne ha sessanta e sopratutto non sta per morire. Vassapè aspettative di vita bassissime in quel degli iuessei.
La storia è parecchio ordinaria, Nathan a Brooklyn ritrova il suo nipote preferito Tom e anche grazie all’idea di scrivere un libro inizia a ritrovare gli stimoli per dimostrare a noi tutti che in un film di Woody Allen ci potrebbe stare benone: diventa l’amicone di Tom, si innesta perfettamente nel quartiere in cui ha iniziato a soggiornare e trae linfa dai personaggi che, con il loro vissuto, danno vita, forma e sostanza alle sue giornate. La trama si infittisce con l’arrivo di nuove figure che aprono finestre sul passato comune di Tom e del protagonista e fino a tre quarti e mezzo del libro ero proprio contento di ciò che stavo leggendo. Oddio in realtà in alcuni punti ho avuto la sensazione tipo di puntina che salta sul vinile generando non quegli adorabili crepitii, ma un vero e proprio disturbante break momentaneo, ma ho pensato “che sarà mai, per dio, vuol provare a fare lo splendido fuori contesto”.
E invece arriviamo al finale. Quel momento in cui nei film di Woody Allen capita sempre quel qualcosa di tragicomico che ti risolve la situazione. E porca merda qui Paul Auster decide di far diventare tutto una roba a mio modo di vedere un po’ trash alla Vanzina, come se apparisse Massimo Boldi e si ficcasse la punta di un albero di Natale in culo urlando “mamma mia cheddolore”. E mi sono decisamente cascate un po’ le palle di Natale, devo dirlo. Per carità si tratta di una scelta narrativa e quindi il gusto è assolutamente opinabile in chi sta scrivendo sto pippone di recensione, però dopo le trovate e situazioni belle e interessanti della storia, sbattere il naso su una serie di cagate a ripetizione, così forzate da risultare davvero fuori contesto, per me è proprio un big NO.
Non penso dichiarerò Paul Auster uno scrittore con cui ho chiuso giochi e partita, però se prenderò in mano un prossimo libro, terrò tutto il tempo le dita incrociate sperando non ci sia un Christian De Sica che va a sciare a Cortina imbastendo una tresca con l’amica della figlia dello zio del nipote dell’industriale milanese.