Attenzione attenzione attenzione attenzione! Prendo questo libro con tutte le migliori aspettative. Quelle che da “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” Saramago si è conquistato sul campo alla grandissima, confermandosi apertamente con quella figata fotonica di “Cecità”.
Se non li avete letti leggeteli, perché a scanso di ciò che sto per scrivere, e che potrebbe suonare tipo bestemmia in piena Piazza San Pietro, a me José Saramago piace e lo trovo geniale. Quindi con altrettanta sincerità vi dico che questo libro l’ho trovato abbastanza mediocre, con un finale di una banalità tale da avermi fatto iniziare a porre, in vece di Saramago, dubbi esistenziali sulla sua stessa paternità del libro.
Leggo: “In uno stato non ben definito, la morte decide di smettere di compiere il suo lavoro”, basta questa frase di incipit a farmi dire “Super! Lo voglio!”. In un niente, bam! Il libro è in mio possesso, parto a cannone con la mia solita lettura vorace stile “Mosè che parte nel deserto con miraggi di Coca Cola e Rigoli Mulino Bianco” e dopo poche pagine mi schianto contro un muro.
Cioè non propriamente un muro muro, diciamo più una palude fangosa in cui fare ogni passo costa una fatica enorme e ogni volta stai lì a chiederti “dov’è già che ho messo il piede poco fa?”. Esatto. Saramago prende la sua proverbiale forma narrativa fatta di periodi eterni inframezzati da virgole e la porta all’estremo. E per estremo intendo ben oltre il settimo senso dei Cavalieri dello Zodiaco, per estremo intendo una roba così over che alla fine fa il giro e ti tira i calci nel sedere.
Saramago perché mi fai questo? A leggere i periodi della prima parte del libro mi viene la labirintite per quanto in diversi passaggi il succo sia più offrire un esercizio di stile narrativo barocco che venire al punto della questione. Io lo capisco che tu hai il tuo status quo da preservare, ma cazzen pensa ai miei occhi, alle mie aspettative.
La trama di base è anche interessante, sapete: la morte sciopera, non muore più nessuno e quindi? E quindi José ci fa vedere come reagirebbe la gente comune, le grandi istituzioni che regolano l’opinione pubblica, dai politici alle religioni, dalle organizzazioni criminali alle infrastrutture statali. Pur procedendo lentamente, con cautela, si riescono ad apprezzare quelle tipiche gemme che fanno di Saramago il Saramago che ho così apprezzato negli altri suoi libri.
E poi, quando uno si aspetta finalmente il decollo del volo, quando hai già allacciato le cinture, sbirciato dal finestrino, sentito i motori in accelerazione. Dico, esattamente quando il tuo cervello ha già razionalizzato la sensazione di stomaco che lentamente ti finisce in gola per farti staccare da terra. Ecco. Proprio in quel momento viene tirato il freno a mano, l’aereo fa una derapata sulla pista che Fast and Furious levati e niente. Tutto finito. Vieni fatto scendere in malo modo a calci nel sedere.
Again.
Cazzarola troppi calci nel sedere in questo libro. Troppi periodi lunghi come stringhe di scarpe che ti trovi sempre slacciate e alla fine ci rinunci, ad allacciarle. Troppe aspettative finite in un barile di lacrime venduto al mercato nero nel circuito dei feticisti raccoglitori di barili di lacrime (sono sicuro che in qualche posto, in Giappone, qualcuno lucrerà anche su questo).
Entra in scena la morte (con la “m” minuscola, come precisa l’autore), che decisasi a riprendere ad ammazzare con giustezza, finisce per non riuscire ad ammazzare un certo violoncellista per cui era giunta la sua ora. E da lì è tutta una banalissima discesa senza curve, direttamente verso la stazione “se ci pensi un attimo sai già come andrà a finire”.
Esatto. Proprio come state pensando.
Insomma, José Saramago, io ti stimo sei un bomber, un top player, hai vinto il Nobel, hai scritto capolavori, sicuramente avrai anche vinto tutte le gare di composizione alle elementari, ma sto libro non so davvero come ti sia potuto uscire.
Non mi rimane che andare a imboscare malamente il barile di lacrime, perché almeno quello non deve fare una così brutta fine!