Qui siamo davanti a due casi eclatanti: il primo, il fatto che sia arrivato a questo libro grazie ad uno dei soliti, fastidiosi, “se hai letto x allora potrebbe piacerti anche y o z”. Il secondo, ma chi mai on earth aveva mai sentito parlare di Giorgio De Maria? Che io sono pure del torinese, quindi quando grazie a wikisvegliati ho toccato con mano lo spessore di uno scrittore-sceneggiatore-musicista-etc a tuttotondo tuttocampo, non mi è rimasta altra scelta che cospargermi il capo di cenere e portare il cilicio punitivo per almeno due-barra-tre settimane.
Leaving this shit apart, Giorgio De Maria confeziona nel 1977 un libro in grado di piazzarsi a metà fra il profetico, l’inquietante e il distopico, quello bello, proprio così come piace a me. Se vogliamo trovare un difetto a “Le Venti Giornate di Torino” è solo il fatto che tutto finisca troppo presto, troppe poche pagine per raccontare una storia che avrei voluto forse più ricca, forse con più approfondimenti dei millemila spunti che lancia.
D’altro canto penso anche che il grosso dell’efficacia di tutto l’ambaradàn sia proprio il fatto che BAM, con un “uno-due” d’effetto tutta la storia ti passa davanti agli occhi e la tua mente rimane lì ad alambiccarsi sui perché e sui percome. Mi rendo appena conto, dicendo tutto e il contrario di tutto, di aver confezionato un pensiero democristiano fino al midollo.
Il libro vede al centro delle vicende un misterioso e innominato io-narratore-protagonista (che da qualche spunto prende a prestito sicuramente tratti di De Maria), che si trova a riaprire un “caso”, meglio dire un “evento straordinario”, verificatosi dieci anni prima nella città di Torino. Torino, partiamo da Torino, che è il palcoscenico delle vicende, che sa stare sullo sfondo con però un peso ed un valore narrativo forte, importante. Torino che De Maria fa diventare una “cosa viva” che non è solo passiva ma prende direttamente parte agli eventi strani delle famose “venti giornate”, periodo in cui molti cittadini, legati all’istituzione della “Biblioteca”, sperimentano episodi di sonnambulismo e finiscono per fare una brutta fine.
La “Biblioteca” che De Maria immagina come un luogo in cui ogni cittadino poteva recarsi e depositare un manoscritto autobiografico, libri scritti di proprio pugno, narranti tutti i propri aspetti personali più segreti. Come fosse un catalizzatore di diari privati, improvvisamente accessibili a tutti, da tutti consultabili. Insomma ve lo devo dire o ci siete arrivati da soli? Tutto questo nel 1977. Mica male!
Non voglio fare il guastafeste perché già il libro è breve, dilungarsi nel raccontarlo sarebbe da brutte persone, ma lo consiglio caldamente. O anche freddamente visto che si va verso l’estate. Scorrere le pagine mi ha lasciato una piacevole sensazione di continua sorpresa, come se avessi fra le mani un qualcosa in grado di ricordarmi un film di Dario Argento, il senso dell’inquietudine tipico di alcuni racconti di Allan Poe e il surreale. Un surreale che si adatta a misura d’uomo sul proprio autore, un autore che, poveretto, wikifattiunacultura mi sottolinea essere finito malerrimo: mezzo pazzo, superdrugà e sopratutto senza che nessuno si filasse un libro, questo, portato nuovamente sotto i riflettori solo da una ristampa ammeregana!
Insomma c’è Torino, c’è una storia distopico-inquietante, c’è un autore che è finito morto pazzo e dipendente dall’Halcion: ci sono tutti gli ingredienti per prendere e andare a leggere questo libro senza passare dal “via”!