Vi piace la matematica? A me non è mai troppo piaciuta, un rapporto amore-odio e poche corrispondenze e ammiccamenti. Ma qui, per iniziare, ci serve subito un po’ di matematica. 1952, segnamoci quest’anno. 2018, segnamoci anche questo, di anno. Parliamo di sessantasei anni. Sessantasei anni fa il buon Clifford D. Simak tirava fuori questo libro, confermando pienamente l’assunto per cui per essere dei grandi scrittori di sci-fi devi avere una lettera a caso fra il tuo nome e cognome.
In Italy il libro arriva con il titolo di “Anni senza fine”, che fa molto spin off tipo di Dawson’s Creek. Però quei super bomber totali, con visione di gioco a trecentosessantagradi, delle edizioni “Urania”, lo portano con il titolo originale: City.
Partiamo proprio dal concetto di città, di nucleo che nei secoli si disgrega e con lui tutta la rete di relazioni e significati che ha sempre portato nel tempo. Partiamo dagli uomini e dalla razza umana raccontata, a mo’ di leggenda tramandata nei millenni, da una razza che nel mentre si è evoluta: la razza dei cani.
City è un libro che attraversa le epoche segnando l’ascesa e la decadenza dell’Uomo, attraverso le sue presunzioni, le sue invenzioni e, sopratutto, i suoi madornali errori di forma. Non ricordo chi disse che “le peggiori azioni nascono dalle migliori intenzioni”. Direi che ci calza a pennello.
Come al solito rimango a bocca aperta pensando a quel numero all’inizio, quel 1952 in cui sembra incredibile qualcuno possa scrivere di futuri così futuribili, allora come oggi, ma mai, come oggi, così ipotizzabili.
Non so se sia il modo in cui le generazioni dell’epoca esorcizzavano i recenti e brucianti ricordi delle guerre, una maniera di astrarsi con la fantasia dalla realtà, per giudicarla in maniera allegorica senza rinunciare a lasciare dei moniti, delle idee sospese di quali sarebbero potute essere le strade che l’uomo avrebbe percorso di lì ai prossimi secoli.
Quello che è per me entusiasmante è la incredibile capacità di fantasia che tutta la letteratura sci-fi degli anni ’50-’60-’70 ti spiattella davanti con una nonchalance irriverente. Tipo quando giocando a calcio ti fanno un tunnel, ti abbassano i pantaloni, ti tirano addosso e ti fai pure autogol.
Dove abbiamo perso questa capacità? Questa fantasia?
Come mai gran parte delle produzioni cinematografico-letterarie di oggi hanno tutte il sapore del “giavvisto” e “giassentito” e “giammangiato”?
E sopratutto, che senso ha farmi queste domande in cui neanche mi rispondo da solo? Marzullo scansate.
Detto questo, non si può recensire e parlare troppo di “City”, perché merita essere scoperto in tutti i suoi otto racconti che lo compongono. Otto storie narrate dai Cani (non la band hipsterdebosciata), che ci raccontano degli uomini attraverso le generazioni di Webster, con la presenza del robot Jenkins, che attraversa i millenni come spettatore immortale di una storia che non ha fine.