C’è sempre una prima volta per tutto e per me la prima volta di Philip Roth è arrivata tardi, molto tardi. Diciamo tardi tipo “Trenitalia, ci scusiamo per il disagio”.
Ecco. Il Disagio. Quando lo scorso maggio è mancato questo scrittore ammeregano, che ogni anno indicano dover vincere il Nobel per la letteratura e ogni anno, come un Di Caprio incallito, viene rigettato, ho avvertito un po’ di Disagio, con la “D” maiuscola.
Una faccenda del tipo: “Porca merda, ma se inizio a leggere qualcosa di suo e poi scopro che mi piace cosa faccio? Questo ha levato le tende e arrivederci”. Questa pantomima di tragedia greca è durata, nella mia mente, un tempo variabile fra i 10 secondi e il minuto, in cui, ricordo perfettamente, mi sono lavato i denti e ho anche controllato se avevo preso il pranzo per lavoro. Però il tarlo di leggere qualcosa di Roth è rimasto.
Me ne sono ricordato qualche settimana fa. Non del pranzo, che fortunatamente in tutti questi mesi ho agevolato nel mio zaino tecnico-tattico, bensì dell’idea di leggere qualcosa di Roth, della “D” maiuscola di Disagio, della sfiga col Nobel e di quanto l’aggiornamento del Kindle mi stia facendo smandibolare malamente. Sì a questo punto inserire vari “ah i libri di carta sono meglio, ah la carta è meglio dell’ebook, ah gli animali sono meglio delle perzonee etc etc etc”. Non ho ancora imparato a cacare soldi e la soluzione più economica per leggere quel che mi interessa rimane l’ebook. Andate in pace.
“Everyman” di Roth è una bomba. La storia? Semplice. Il plot? Semplice. La narrativa? Una chicca. Roth parte dalla fine, ovvero per tagliare le gambe a tutti gli “Spoiler UTD” del mondo ci dice subito che il suo protagonista è morto schiattato. Di più, si inizia con tombe, funerali, discorsi in stile tipicamente ammeregano e tutta quella solfa che se chiudete gli occhi vi immaginerete esattamente così come l’avete vista in centordici filmsz.
Ma Roth prende e inizia a raccontarci un po’ la rava e la fava della vita del suo “Everyman”, lo fa con una classe così cristallina che Walter White levati, he’s the cook in charge now. Ho avuto una sensazione simile di grandezza narrativa solo davanti a gente alla McCarthy o Steinbeck. Insomma Roth dopo neanche due-tre paragrafi si era già arrampicato sul mio scaffale mentale e accomodato di diritto nella sezione “scrittori coi controcazzi”, che solitamente non celebro con squilli di trombe BUT con tipico aplomb sabaudo mi tatuo come un apprezzamento mentale nei secoli fedele.
Il protagonista come vita, come valori, come arte nel cercare di raccontarsi in una ostinata (a tratti) giustificazione sterile delle proprie scelte, è ciò che di più lontano possa sentire dal mio modo di pensare. Eppure Roth rende il suo personaggio accessibile, racconta qualcosa in cui tutti, nel bene o nel male, si trovano invischiati e coinvolti, finendo a perdere la tangente con riflessioni personali. Ecco ho trovato “Everyman” una lettura stimolante, una di quelle pareti verso le quali se lanci una pallina, questa ti torna indietro ogni volta con una traiettoria imprevedibile, costringendoti a stringere bene le chiappe per afferrarla, provare a correggere il tiro e magari, perché no, scoprire certi aspetti di te che non immaginavi.
Sviolinata importante per me, ma dopo tutto questo amore profuso in parole, la chiuderei dicendo che arrivato a trentasette anni, ho scoperto Philip Roth, sono curioso di leggere altro di Philip Roth, sono conscio di dovermi assaporare piano piano quel che ha scritto Philip Roth e chissà che come capitato a me non possano scoprirlo anche quelli dei Nobel.
Che poi, voglio dire, ma c’è davvero da diventare ossessionati dal vincere un premio che porta il nome del tizio che ha inventato la dinamite?