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20 Settembre 2018
Richard K. Morgan – Angeli Spezzati

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Richard K. Morgan – Angeli Spezzati

Dopo la spiazzante sorpresa, di cui ho già recensito in passato, di “Bay City”, da cui Netflix ha tirato fuori quella seriaccia seria che risponde al nome di “Altered Carbon”, m’è salito un hype violento sapendo che il buon key-dot Morgan non si era fermato lì, pensando bene di far continuare le peripezie del suo Takeshi Kovacs ad libidum.

Ora. Tutto bene tutto molto bello ma time-out un secondo. Finisci “Bay City”, pensi sia una gran figata con tutto quel mix di cyberpunk e sci-fi e crime-story e spy-story e due uova e 300g di farina e sbattere bene il tutto con 70g di burro e … STOP. Lo finisci, poi guardi il buio oltre la siepe e ti ritrovi un cartello di neon mezzi bruciati con una scritta: “Angeli Spezzati”. Il libro successivo. Dove finirà il buon Tak. Insomma il DOPO, capish?

Leggi “Angeli Spezzati” e pensi subito: ma che razza di titolo è? Speri che sia uno di quei casi in cui in italiano han tradotto qualcosa dall’inglese un po’ a cazzo, quello che io chiamo l’effetto “Eternal Sunshine of the spotless mind” (diventato un penosissimo “Se mi lasci ti cancello”, che pensi possa essere una commedia con Hugh Grant che si prende ombrelli in the ass). Invece no, dannazione, not at all. Il titolo è proprio “Broken Angels”, che ti evoca i vampiri di Twilights che fanno la lotta nel fango con un romanzo rosa a caso. Senti già puzza di nerd brufoloso che si legge il tutto nella sua cameretta piena di poster sgranocchiando caccole.

Ma l’hype è sacro ed è un fuoco che tutto divora, anche le inibizioni più profonde. Come quella volta che andai di brutto a vedermi Harry Potter al cine, per capirci. Allora che faccio? Controllo la pelle della faccia, mi faccio una doccia, deodorante tecnico-tattico, jump in the train e via “Angeli Spezzati” a noi due.

Il super pippone preparatorio non farà seguito ad una recensione super dettagliata, il libro ve lo dovrete scoprire. Diciamo subito che Netflix ha assicurata una bella seconda stagione. Key-dot senza saperlo ha proprio scritto qualcosa che calza a pennello sullo schermo, qualcosa che per il 90% della narrazione è completamente discontinuo rispetto a quanto capitato nel primo libro e quindi si presta benissimo a levare qualsivoglia sceneggiatore dall’imbarazzo del “oh merda nella scorsa stagione è successo X e quindi adesso dobbiamo far capitare Z in qualche modo, sperando Y non s’incazzi se no siamo licenziati e torneremo a scrivere le puntate della melevisione sighsob”.

Kovacs è sempre lì con il suo carattere finto-tenebroso, finto-uomo-che-non-deve-chiedere-mai, che alla lunga se nel primo libro colpiva e piaceva, portato all’esasperazione (non giocata poi fino in fondo) diventa più un tratto-macchietta che un corroborante dell’immagine super-cazzuta che l’autore vorrebbe del suo protagonista. Ci sono sempre gli intrighi, ci sono sempre le supercorporesciououn tipiche di un’ambientazione Cyberpunk, c’è assolutamente sempre la grande capacità di Morgan di dipingere un’ambientazione molto vivida nella fantasia del lettore, quella in grado di incollarti alle pagine anche se il tuo libro ha indubbiamente un titolo di mierda.

Alla fine si capisce anche chi siano sti angeli, ci si mette un po’ ma posso quasi dire che ne vale la pena. Quel che però a questo giro non mi ha convinto è la sensazione di avere fra le mani un cliché. Come se il vecchio key-dot si fosse imposto un canovaccio da seguire, che alla fine ricorda molte situazioni telefonate da “Bay City”, cercando di non marcare troppo il riferimento contestual-narrativo.

Ragazzi ma ci credete? Ho appena scritto “contestual-narrativo”. P-A-Z-Z-E-S-C-O.
Posso chiudere baracca e burattini e tornare nella mia cameretta, prontissimo a prendere in mano il terzo e ultimo libro: “Il ritorno delle…”
Oh merda, again. Seriously?? “Il ritorno delle furie?”
Servirà del training. Autogeno.

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