Ci siamo. Arrivati al capolinea, all’ultima fermata, quel posto in cui inesorabilmente si trova una banchina o piena di gente pronta a fare a pugni per poter prendere il tuo posto mentre stai cercando di scendere, oppure quello in cui con mano si tocca concretamente il più profondo senso della parola “desolazione” unita ad un “machittesencula” tanto poetico quanto severo (ma giusto).
“Il ritorno delle furie” chiude il ciclo in cui ER-KEY-MORGAN (maiuscolo proprio per evidenziarvi l’enfasi e il pathos) si trastulla con Takeshi Kovacs: già fu Spedi, già fu mercenario al soldo di qualche potente di turno, già fu personaggio di una serie Netflix, già fu man chu.
Insomma il mondo di Morgan è sempre quello che ci ha descritto ed a cui ci ha abituato nei libri precedenti: cyberpunk spintissimo, umani immagazzinati in chip corticali che cambiano corpo più sovente di quanto Chiara Ferragni cambi la cover del proprio smartphone, marziani che prima c’erano ma poi non ci sono più perché “è una storia lunghissima da raccontare quindi non mi fate dire nulla che magari ci scrivo poi un libro” e lui, Takeshi, appunto, che fa le sue cose. Le sue solite cose vorrei dire.
Già, perché KEY-EM (enfasi) dopo essersi fatto sto battone incredibile nel dipingere e architettare un universo finzionale super verosimile, sembra non aver proprio cazzi di affrancare anche il suo personaggio-feticcio da situazioni, comportamenti e linee narrative principali dalla più becera ripetizione. Anche in “Il ritorno delle furie” si vede un Kovacs che fa l’uomo della pubblicità “Denim”, che non deve chiedere mai, che poi però alla fine chiede e con gli interessi. Insomma le solite situazioni alla Kovacs immerse in una solita storia alla Morgan dove l’unico reale elemento di valore è costituito dal contorno più che dalla sostanza.
Come se ti portassero ancora una volta da mangiare l’ennesimo piatto di carne, che nel tempo è diventata gomma, ma ti cambiassero il contorno con qualcosa che ad ogni portata ti fa dire: “ma se sapete cucinare, cazzen, ma perché mi portate sta carne demmerda?”. Tengo a precisare che nessun animale è stato ucciso per la frase di cui sopra. Era un esempio, per dio!
Allora sentite un po’ qui: Kovacs se ne ritorna all’improvviso sul suo pianeta natale e lì non si sa bene come e perché, finisce invischiato in una sorta di storia che prima sembra una spy story, poi diventa na roba alla “mai fidarsi della gente che incontri in un bar e relative conseguenze” e alla fine si concretizza in una bella revenge-story che guarda un po’ suona proprio nuova. Sopratutto perché non si capisce mai davvero verso chi Kovacs abbia le proprie palle girate.
Concludendo, vostro onore, ho letto il libro perché andava fatto, perché non si mollano le trilogie a metà, perché un po’ Kovacs mi stava simpatico e perché penso che Netflix prenderà a piene mani da tutta sta roba per farci serie, gadget, film e quant’altro. Meglio, quindi, farsi trovare preparati!