In un’ipotetica riunione alla “alcolisti anonimi”, io sarei quello che se ne sta tutto in disparte, inquadrato/non inquadrato sul centro dell’attenzione di rito, magari proprio vicino a quello/a che ha appena parlato. Avrei un’etichetta fatta con lo scotch di carta appiccicata sulla felpa con cappuccio con su scritto un nome finto, e ad un certo momento alzerei la mano per dire: “Ciao a tutti, sono qui perché prima di leggere questo libro ho visto la serie su Netflix”.
Occhiate torve, menti che si scuotono all’unisono a sottolineare un “NO” dal sapore di sentenza definitiva. Proverei anche a dire “Sì lo so, ma in realtà sono così capra che manco sapevo esistesse un libro”, col solo risultato di venir ulteriormente schifato, messo al centro, dipinto con dei pennarelli colorati sulla fronte e mandato via a calci in culo di giustezza.
Fortunatamente NON siamo in un contesto del genere e mi prendo la smargiassissima libertà di elevare i medi all’ennesima potenza mentre affermo la mia colpevolezza dichiarando subito “il libro, rispetto alla serie, mi ha fatto cacare a singhiozzi!”. A partire da qui, dunque, potete inserire liberamente insulti tratti dall’enciclopedia magna dell’analfabetismo funzionale o dal dizionario dei “cornuti e mazziati” con prefazione di Bejamin Malaussène.
La storia di Shirley Jackson è sostanzialmente mooolto (con tre “o”) diversa da quella che è stata portata sullo schermo dal colosso ammeregano. In pratica di uguale c’è solo la casa e tre personaggi, i quali sono tutti così dei clamorosi diti in culo che dopo pochi capitoli rimpiangerete subito di averli ancora lì.
Sì “diti” suona veramente brutto e rischia di essere un incubo più devastante di quanto non lo sia stata Hill House, però prima di proseguire fermi tutti ed eccovi servito il momento “accademia della crusca”, gentilmente sponsorizzato dal mio indefesso senso del pudore nel cercare qualsiasi cosa mi attanagli su Google:
“Il maschile ‘diti’ si riferisce ai ‘diti’ considerati distintamente l’uno dall’altro: ‘i diti pollici’, ‘i diti indici’, ecc.”
(L. Serianni, Grammatica italiana, III, §118h)
Precisato questo, andiamo avanti. Dove eravamo rimasti? Ah sì. Dunque ci sono LA CASA (maiuscolo, per incutervi timore), Eleanor AKA Nellie AKA Pazza furiosa, Theodora AKA Theo AKA Narcisismo ha un nuovo sinonimo e infine Luke AKA niente AKA avrò anche trent’anni ma il cervello incastrato sotto le unghie dei piedi a 13 anni. Questi sono gli unici elementi di continuità rispetto alla serie. Dove tutti quanti non sono nemmeno imparentati, bensì semplici attori richiamati a Hill House dall’enigmatico Dottor Montague.
Parliamo del mister in questione. Dunque. Cognome vagamente francese, giusto per conferire quell’aura di “dottorialità”, come chiamare il proprio cane “Laika” per in qualche modo marcare ancor di più il rapporto diretto significante/significato (chicca di semiotica lanciata lì così, tiè). Studia i fenomeni paranormali con un approccio scientifico, vorrebbe tanto scrivere una pubblicazione ufficiale sui suoi studi, questo perché secondo me:
a) i suoi colleghi lo prendono in giro mettendogli dietro la schiena pesci/fallici giganti ogni primo aprile
b) lo fanno anche a settimane alterne tutti gli altri giorni
c) non vuole rendersi conto che ormai, poveraccio, non passa più dalle porte (capite ammè!)
Montague recupera quindi informazioni su Tripadvisor riguardo questa Hill House, che viene recensita con ben cinque stelle nelle categorie “Dimore fatiscenti”, “Sistemazioni Poltergeist”, “Servitù di merda ma si mangia bene”, “Amanti dei rumori notturni”, “Feticisti delle case stregate”. A questo punto non ha dubbi: è esattamente tutto ciò che gli serve per poter sputtanare quei minchia dei suoi colleghi, scrivere la sua super pubblicazione scientifica e, sopratutto, farsi riconoscere al mondo intero come fiero cervo a primavera.
Per gli studi servono soldi, ma se sei in un romanzo la faccenda-soldi si risolve abbastanza velocemente: basta fare e non parlarne. Gli servono anche dei soggetti che partecipino al suo studio e qui la situa è più delicata, perché se già sorvoli sui soldi, almeno un po’ di melina su come raccattare dei disperati per il tuo progettino estivo la devi fare. Insomma tramite un accurato processo di selezione che probabilmente avrebbero passato anche il 90% dei candidati al “Grande Fratello”, recupera i nostri tre personaggi di cui sopra.
Eleanor ha perso da poco la madre, che accudiva amorevolmente sputandole ogni volta nel piatto della minestra e che ben presto emerge con una personalità così forte da non lasciar adito a dubbi. Siamo davanti, infatti, ad una professionista della sega mentale applicata al pensiero contorto, una pesi massimi di considerazioni al retrogusto di schiaffo in faccia. Il profilo perfetto per diventare la protagonista principale di “Fist House”.
Theodora ha perso da poco la dignità, che accudiva amorevolmente zerbinando in maniera massiccia un improbabile coinquilino di cui si parla poco, perché in realtà lei riempie gli spazi parlando così tanto di sé, che pare Andrea Scanzi, leggendo il libro, abbia dovuto aprire la porta perché assieme al suo ego non c’era proprio spazio in quella stanza. Il profilo perfetto per diventare una spalla della protagonista principale di “Uomini e Donne House”.
Luke ha perso da poco la paghetta settimanale, che riceveva amorevolmente dalla zia, proprietaria di Hill House, che fa questa mossa tattica del voler imbucare il nipote nella pantomima di Montague, convintissima che questo servirà a trasformarlo in un vero uomo responsabile. Luke non ci metterà molto a ripagarla, iniziando di getto una pia opera di catalogazione dei valori della casa a scopo ricettazione. Il profilo perfetto per diventare il reggipalle di Montague in improbabili partite a scacchi, in cui quel bomberone del dottore si bulla vincere ogni volta contro un individuo dal QI più basso di un vaso da notte pieno.
Insomma cosa volete che facciano in meno di una settimana personaggi del genere? Casini. Esatto. Non bastano figure terze come la simpatica governante (che sicuro caga sul polpettone) o la moglie del dottore con l’amicone Arthur a dare verve ad un libro che scivola lento verso una fine sempre più agognata.
A tratti si ha la sensazione possa voler essere un horror più psicologico che altro, ma il fissarsi sui pensieri di Eleaonor e su tutte le relazioni che da questi scaturiscono verso gli altri personaggi, emerge come il leitmotiv principale che a me personalmente non basta per giudicare “bello” questo libro.
Ok, è stato scritto a fine anni ’50, ok dobbiamo far passare tutta la sequela di stereotipi e comportamenti standardizzati dei personaggi, che sembrano a tratti usciti da una pubblicità di un detersivo per piatti dell’epoca, però non posso dare attenuanti all’infinito, altrimenti sono convinto che potremmo trovare un’ottima giustificazione anche al mostro di Milwaukee.
Niente da fare Shirley Jackson, anche questo tentativo di unire Shirley Temple con Peter Jackson non ti è andato molto bene!