Che cosa mi è rimasto di “Alcatraz”? Bella domanda. In realtà la cosa strana è che ho iniziato a farmela subito, dopo poche pagine. Premesso che visto il mio ritardo classico da “chiamatemi Rimba”, ho capito DOPO che questo libro era in realtà tratto da una trasmissione radio andata in onda verso la fine degli anni ’90, mi sono appunto detto “ma di questo libro cosa mi rimarrà?”
Jack Folla è il personaggio, alter ego(?), feticcio(?) che l’autore mette in pista in una di quelle che, a posteri, fatico anche io a credere possa essere stata una trasmissione fatta passare da big mother RAI, sopratutto in quel contesto là. Precisamente in quel contesto lì. Sì lo so, ho ereditato da mia madre il vizio di dare indicazioni fittizie su “lì” e “là”, precise quanto un’indicazione gettata a caso su una mappa del 1.734 impregnata di acqua.
La trasmissione radio è la concessione che viene fatta a Jack per diffondere i suoi messaggi fino al resto dei suoi giorni di condannato alla sedia elettrica negli USA. Insomma un bel personaggio costruito ad arte e caratterizzato nella quantità giusta di mistero unita alla quantità giusta di presunte verità personali. E di che parla Jack? Di tutto e di più, come il famoso spot RAI. A tratti assume i contorni del paternalista in grado di lanciare benedizioni urbi et orbi alla velocità della luce, a tratti eccolo scattare sulla fascia, alzare la testa per sfornare una sciabolata morbida di accuse al sistema, alla società, a ciò che stava diventando lentamente la gente nel millenovecentonovantotto. A ciò che già era la gente nel millenovecentonovantotto.
Ecco. Fermiamoci qui su questo anno. Cazzarola. Vent’anni fa. E proprio questa considerazione mi ha intuppato un attimo la lettura, come quando sei a pranzo dai parenti e pensi sia già tutto finito e invece no, hai appena passato il cartello che segna “antipasti”.
Jack parla alle donne e ai ragazzi di vent’anni fa, lo fa da quarantenne con il suo passato, i suoi errori, le sue convinzioni e una bella coperta di opinioni che intende far sapere a tutti. Sono gli anni in cui i cellulari si affacciano nei palmi delle mani di ogni pischello (me compreso), gli anni in cui la TV generalista sta compiendo l’evoluzione che la porterà a diventare intrashtenimento, insomma il buon Jack non riesce a credere che i suoi connazionali siano diventati così rincretiniti da non aver capito nulla della lezione del post Tangentopoli.
Passano le pagine, le considerazioni, ed ecco che voilà, basterebbe sostituire 1998 con 2018 e “tv” con magari “smartphone-internet” ed ecco che tutto quadra perfettamente. Siamo riusciti a compiere una semi-capriola generazionale traslando la nostra stupidità diffusa di ben vent’anni. Insomma alziamoci e facciamoci un applauso convinto.
Il mio giudizio sul libro in generale si alza forse proprio per questo, alla fine. Non tanto per merito dell’autore quanto per demerito nostro, quello del non aver saputo sfatare tutte le premesse che venivano lanciate da un prodotto cultural-radiofonico di fine millennio. Una cosa però mi ha affascinato molto: il dialogo. Già perché la gente scrive al Jack Folla in radio, la gente commenta, prende parte, dice la sua e lo fa, con idee ed opinioni differenti, sottendendo un unico comune denominatore. La capacità di credere e meravigliarsi.
Tutti sanno che Jack non è un condannato vero. Tutti sanno che è un programma costruito ad arte. Eppure tutti vanno oltre questa maschera e si aggrappano all’idea e alle idee che questo DJ atipico esprime ogni sera. Non è importante quindi che Jack sia una persona vera, che davvero stia per morire, che davvero abbia una spina nel fianco di nome Greta. Importano le parole, ciò che ha da dire, le suggestioni davanti alle quali chi lo ascolta decide di indignarsi, o di sentirsi partecipe, di incazzarsi o di essere indifferente.
Ho pensato: ma i ragazzi, oggi, riuscirebbero ad assorbire un progetto come questo in quella maniera? Quella maniera che esce fuori dall’appendice di lettere inviate alla redazione? La risposta è “No” ed è anche ciò che maggiormente, oggi, ci divide forse da quella generazione un po’ incazzata, un po’ disperata, ma capace di ascoltare e ascoltarsi guardandosi ancora in faccia o attraverso le parole di un amico immaginario.