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9 Gennaio 2019
Antonin Varenne – Sezione Suicidi

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Antonin Varenne – Sezione Suicidi

Non sapevo bene cosa aspettarmi da questo libro. Mi ci sono incaponito, però, nel trovarlo. Era comparso nello stream pesantissimo di consigli che ogni tanto mi popuppano “in da face” e mi ha subito attirato.
Insomma avevo anche letto la sinossi e tutto avrei pensato fuorché quel che poi si è rivelato: un libro francese, così francese nel midollo che ad ogni fine capitolo mi veniva l’impulso di andare a controllare se in bagno avessi ancora il bidet.

Fin da subito la sensazione è quella di sedersi ad uno di quei pranzi eterni in cui le portate arrivano col contagocce e sono tutte annunciate con nomi impronunciabili che però fa fighissimo declamare. Come se esibendo un “fantasia di arrosto in letto di rugiada gargantuesca accompagnato da patate del sole di orione in tramonto sulla costellazione di andromeda” tu possa sfamarti senza pensare che alla fine ti stanno servendo uno stronzino di carne con contorno.

Varenne è francese. Scrive un libro francese, da francese, in quello stile francese così pieno di dettagli e particolari che a volte danno decisamente un po’ troppo la nausea. Se fosse un film, questo libro, sarebbe un film leeeentissimo in bianco e nero, muto, con i dialoghi scritti su fondo nero in quel fuori sincrono a volte esasperante. Ma, mettiamoci un bel “ma”, devo anche dire che alla fine la storia ha il suo bel perché. Alla fine in un qualche modo ti prende e ti coinvolge fino alla fine, mentre vorresti schiaffeggiare Varenne per dirgli “eddai e muoviti, smettila di descrivere anche il colore del dorso dello scarafaggio che passava per strada quella mattina!”.

Per onore di cronaca, il libro, è un bel noir in cui ci si capisce all’inizio poco, poi qualcosa e alla fine qualcosina, con però qualche punto interrogativo che rimane aperto. I personaggi vedono l’eccentrico e nevrotico Guérin, a capo della “Sezione Suicidi” della polizia parigina, rimanere invischiato con il suo vice Lambert in una storia che coinvolge morti troppo singolari per essere scollegate e la crociata personale di un altro personaggio, il buon ammeregano a Parigi John Nichols. Che gran caduta di stile chiamare un americano John. O Jack. O insomma, qualsiasi nome un po’ meno scontato poteva andare bene.

Ecco l’avete capito, questo libro ti fa diventare una sorta di vecchio brontolone imbruttito, perché alla fine ti lascia in bocca l’amaro gusto dell’insoddisfazione, con la catarsi che ormai si è andata a far friggere ben prima delle ultime pagine.

Non lo boccio su tutta la linea perché è scritto bene, perché si capisce che l’autore è un peso massimo della sega mentale applicata al racconto ossessivo compulsivo dei dettagli (ed è una dote che, a scanso di equivoci, per una mia deviazione mentale mi ritrovo ad apprezzare anche quando fine a sé stessa) e perché i personaggi vengono rappresentati bene, un po’ ti ci affezioni anche se a diversi tratti vanno a scadere nel mix macchietta-luogo comune che buonanotte suonatori.

Concludo con la benedizione urbi et orbi.
Consigliato agli amanti del cioccolato fondente nero senza speranza.

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