Quando si parla di montagna, nel mio caso, si parla di quel qualcosa che in un certo qual modo è sempre stato parte della mia vita e, sempre in un certo modo, è diventato un fattore che oggi mi getta addosso una sensazione simile all’idea di gettarmi nell’acqua di una piscina alle cinque del mattino.
Da piccolo mi facevano trottare come un mulo facendo un sacco di escursioni organizzate dal CAI, mia mamma super appassionata di montagna non perdeva occasione per portarmi a scarpinare con gruppi in cui quasi sempre c’erano miei compagni di classe delle elementari o persone che, oggi, sono ancora dei carissimi amici. Però c’è un però. Quell’eccesso di montagna per me forse è stato troppo. O forse semplicemente in maniera non troppo poetica mi sono rotto le palle e ho preferito fare altro. Fatto sta che la montagna è uno di quegli “odi-et-amo” potentissimi, che fa capolino quando senti, vedi, fai, cose.
Cose come la vicenda legata a Daniele Nardi e Tom Ballard, che hanno lasciato tutto (come spesso accade) alla montagna. Vita compresa. Questo fatto, unito al background di Nardi, neo padre, ammetto che mi ha fatto sorgere molte domande. Domande che mi sono posto senza che queste diventassero una sentenza o un giudizio. Insomma cosa ti spinge a prendere e partire per una spedizione sul secondo ottomila “mangia-uomini” della terra? E cos’ha di speciale questo Nanga Parbat?
Ricordavo Messner avesse perso un fratello in montagna, ma è solo andando a cercare il libro in questione che ho realizzato come tutto quanto fosse avvenuto proprio sul Nanga Parbat, nel 1970, dopo averlo scalato sulla sua via vergine Rupal e completando la seconda attraversata in assoluto di un ottomila (attraversata diventata tale suo malgrado).
Il libro è bello. Punto. Di una bellezza ruvida, perché si concentra sulle sensazioni ed emozioni, perché invece che infighettarti un concetto preferisce prenderti per le orecchie e trascinarti a testa bassa dentro tutte le fasi che hanno composto la spedizione messa su da quel fuori di melone di Karl Maria Herrligkoffer.
La storia del Nanga Parbat è la storia di molti teteski. Non a caso viene chiamata “la montagna del destino dei tedeschi”, un po’ come quando c’è Italia – Germania, insomma. Messner inizia con una carrellata di cos’è questo ottomila conosciuto anche come Diamir (montagna degli dèi).
Il primo tentativo documentato è di Albert Mummery, un inglese che ci prova fortissimo nel 1895 (vi lascio immaginare con quale equipaggiamento all’epoca) ma si ferma a 7.000m e poi scompare assieme ai suoi due portatori Gurkha. Che alla fine, in questa storia del Nanga Parbat, non dimentichiamoci che ci sono sempre questi poveri cristi che si fanno un mazzo tanto portando la qualunque.
Arriviamo poi al 1932 dove il buon Adolfo vede di ottimo occhio qualsiasi cosa possa alimentare il mito-cazzimma del superuomo e del celodurismo applicato. Quindi all-in su Willy Merkl, che tira su una spedizione di superstar teutoniche dell’arrampicata, ma proprio quando due del team potrebbero raggiungere la vetta, ecco che Merkl dice “niet, dobbiamo arrivare su come squadra, caput?”. Tutti annuiscono mestamente nei vari campi attrezzati lungo la scalata. Merkl probabilmente pensava il bel tempo lo avrebbe assistito, sempre per la storia del superuomo, invece no. Gli arriva fra capo-collo una mega tormenta di neve con tempesta di nove giorni. La spedizione finisce allo scatafascio con una vera e propria strage di teteski nel tentativo di rientro sul campo base. Merkl incluso.
Ed è proprio qui che parte dura la fissa dei teteski con questa montagna. Già perché Merkl ha un fratellastro che di mestiere aspira a fare il medico e che s’incula proprio di striscio la montagna. Stiamo parlando di (suspance) Karl Maria Herrligkoffer! Ve lo ricordate? “Proprio lui!” (cit).
In pratica KarlMaria (da qui chiamerollo così, perché il cognome è impronunciabile) si fa partire un embolo per il Nanga Parbat e decide che ad ogni costo dovrà riuscire nell’impresa mai riuscita dal fratello: portare se stesso o almeno una squadra completa di una sua spedizione alla conquista di questa vetta che ha osato sfidare i teteski. Spoiler: non ci riuscirà. Mai.
Mentre KarlMaria studia “alpinismo estremo for dummies”, intanto, altri suoi connazionali pensano di gettarsi nell’impresa che rappresenta il Nanga Parbat. Siamo al 1938, dove Karl Wien guida una spedizione spazzata via da una valanga che travolge il campo IV con sette alpinisti e nove poveri sherpa.
KarlMaria ha fatto tutti i compiti, arriva il 1953 e dice: “mettiamo su questo team di soli tedeschi e andiamo a fare il culo al Nanga!”. La punta di diamante, infatti, è l’austriaco Hermann Buhl. KarlMaria a proposito dirà qualcosa come “vabeh comunque parliamo tutti tedesco e vale lo stesso”. Se va bene a lui, va bene a noi. Comunque Buhl sarà il primo uomo ad aver ragione della montagna, con una vera e propria impresa in solitaria, proprio nel momento in cui la spedizione stava per concludersi con l’ennesimo buco nell’acqua. Ovviamente KarlMaria è super incazzato, perché ok che ha messo su la spedizione che ha conquistato la vetta, ma lui voleva farlo alla maniera teteska, per onorare il fratello e per tutte quelle cose che anche Messner, nel suo racconto, più volte sottolineerà essere “i pensieri inavvicinabili che percorrono la testa di Herrligkoffer”.
KarlMaria, quindi, diventerà un resident della catena Himalayana, progettando altri tentativi, fra cui quello del 1970 in cui Reinhold Messner riceve l’invito a partecipare. Anche per lui vale la regola “ok sei italiano ma vabbeh parli tedesco quindi va bene uguale”. Messner in quel periodo ha scorrazzato in lungo e in largo per le dolomiti e le Alpi in generale e lo ha fatto quasi sempre con suo fratello Günther. Proprio quest’ultimo verrà inserito a sorpresa, grazie a Reinhold, nella spedizione che vedrà i due affrontare assieme il primo “ottomila”. Per Günther, purtroppo, anche l’ultimo.
Messner descrive tutte le fasi di quei mesi di avvicinamento prima, incertezza, lavoro e preparazione poi e, infine, profondo dolore e smarrimento. Lo fa mettendo a nudo sé stesso in un atto che non ha nulla a che vedere con la catarsi. L’uomo che scrive non cerca un “perdono” o delle ragioni. L’uomo che scrive vuole solo portare il lettore con sé a vivere quei momenti, renderlo partecipe il più possibile in un qualcosa di intimo come le sensazioni davanti alle molteplici ineluttabilità dell’esistenza.
Più volte mi sono letteralmente proteso verso il libro, quasi volessi entrare ancor di più nelle parole, in un racconto profondamente coinvolgente, che anche se non ha risposto a quei miei interrogativi di qualche paragrafo fa, mi ha aperto un modo ed un mondo diverso di approccio generale ad alcuni aspetti della vita.
Ma non voglio dire altro, perché penso sia davvero un bellissimo e tragico resoconto, che merita farsi scoprire, così come il Nanga Parbat, che dalla lettura ammetto abbia lasciato trasparire il suo pericoloso fascino. Anche se, citando proprio Messner:
Se è diventata la montagna del destino, non è perché sia dominata da un demone, ma perché è infinitamente più grande di noi uomini.