Eccomi di giustezza con il secondo libro filatissimo a tema “La Montagna”. Saputo che stavo leggendo “La montagna Nuda” di Messner, un mio caro amico (fra l’altro uno di quelli che quando ero piccolo venivano arruolati nelle varie escursioni del CAI di Volpiano) mi butta lì: “secondo me dovresti provare anche qualcosa di Bonatti, magari dove racconta del Freney”.
Bam, la botta che mi ha lasciato il libro sul Nanga Parbat mi porta in uno stato di tossico-in-astinenza che cantilena ritmicamente “I want moooooreeeee”, QUINDI in tempo imbarazzante mi procuro questo libro, non sapendo bene cosa aspettarmi, sopratutto concentrandomi su un pensiero in particolare. Un pensiero a dire il vero abbastanza idiota. Eccolo qui.
Dunque, mentre cercavo sta benedetta bio, mi sono passate davanti un tot di foto di Bonatti, che nella mia testa avevo fino ad oggi assimilato più ad un concetto astratto di “best alpinista del tempo che fu ever” che ad un volto preciso. Ecco sapete cosa mi ha colpito delle sue foto? Le mani. Delle mani incredibili. Paiono delle pale, ma anche delle estremità ottimizzate e programmate per fare fortissimo presa su qualsiasi cosa. Quindi mi sono chiesto “ma chissà cosa cazzen avrà scritto con ste mani, avrà preso a pugni la macchina da scrivere, tipo”.
Penso avrebbe potuto prendere a pugni benissimo me, per aver pensato sta minchiata. Ma dall’uomo che esce fuori dalle pagine dubito lo avrebbe fatto. In effetti. Comunque il libro che scrive Bonatti è una bomba totale, non solo è coinvolgente al punto da portarti capo-collo-piedi-tutto nel racconto delle sue imprese alpine (e non), ma trasuda concretezza in una prosa che riesce a farsi riflessiva nei punti giusti, oltre che mai autocelebrativa.
Insomma il fatto che sto uomo che fa cose straordinarie riesca a parlartene
a) senza farti sentire in soggezione
b) senza arrampicarsi con quelle manone su un piedistallo (su cui anzi penso proprio starebbe più scomodo che su uno dei suoi bivacchi da 2cm quadrati)
c) con la sola voglia di condividere una passione e un’esperienza
beh, lo trovo un qualcosa di piacevolmente genuino e, diciamolo, toccante. Già, usiamo questo termine un po’ così, perché ci sta tutto (ma poi, perché sto parlando al plurale? fatemi sapere, grazie). Nel libro di Messner ero andato in ricerca di qualche vaga idea o risposta agli interrogativi che la scomparsa di Daniele Nardi, di qualche settimana fa, ha fatto montare nella mia testolina di mierda.
Bene, direi proprio che quelle che erano suggerimenti un po’ telefonati, qui il buon Bonatti non si fa troppe remore e li mette sul piatto della bilancia. Della sua bilancia. Lo fa senza volersi giustificare o senza voler prendere le parti di una categoria, semplicemente lo fa come un appassionato di un qualcosa che riguarda la vita, che parla di una passione che riguarda la vita. E la morte, anche.
Le riflessioni che emergono da queste pagine, attraverso i racconti che partono dalla tragedia del 1961 del Pilone centrale del Freney (conosciuta anche come la tragedia del Monte Bianco) e si concludono con l’ultima scalata in solitaria sul Cervino, non sono assolutamente mai banali ma assolutamente interessanti e fonte di spunti di riflessione molteplici. Sono le riflessioni che la testolina (che conosco bene) di chi passa molto tempo in compagnia della solitudine-positiva, emergono per dare un’idea della propria persona e, di riflesso, della percezione di tutto ciò da cui è circondata.
Sì. Ho usato quel termine “solitudine-positiva”, perché oggettivamente per quanto mi scazzi c’è ancora oggi bisogno di specificarlo. Lo faceva Bonatti nel 1970 nel suo libro, mi trovo a farlo io cinquant’anni dopo in un’epoca in cui la capacità (e anche il piacere o necessità) di, ogni tanto, potersi fermare in un momento di privata riflessione sembra diventato essere qualcosa più stridente delle fottute unghie su una lavagna. Per Bonatti le montagne non sono solo una sfida, per lo più in diversi punti emerge come siano una vera e propria palestra di vita, di crescita morale, personale e come individuo. Dove anche una rinuncia ad una scalata viene interpretato come un passo in avanti verso il capire meglio che persona si è realmente, forse più che negli ambiti delle imprese invece riuscite.
Alla fine, come nella migliore delle tradizioni delle biografie, questo è un bel libro che parla di vita più che di imprese. Di persone, più che di traguardi. E a me è piaciuto moltissimo.
Ritornando al discorso delle mani di Bonatti, riassumerei il quadro così: “Sta mano po’ esse piuma, fero o er modo in cui te spiego du robe sulla vita!”
Conoscere prima chi siamo e poi che cosa si deve fare, dovrebbe essere il dovere di ciascuno di noi; ma quanti sanno cercare la propria verità? Quanti sanno assumersi, senza ingannarsi, la responsabilità di una scelta?