Non si accettano caramelle dagli sconosciuti. Ok?
Tatuarselo in maniera indelebile sull’avambraccio. O sul petto con effetto specchio tipo la scritta “AMBULANZA”. Farne un mantra da ripetere più e più volte per non cadere nell’inganno del classicone di biblica memoria: se ti offrono una mela almeno prima guarda che non sia sporca di merda. No? No.
Lo so, ci ricascherò ancora centordici miliardi di volte. “Uccidi i tuoi amici” mi lampeggia come consiglio random un famoso solstizio di primavera. Quel raro momento dell’anno in cui il sonno letale va in perfetto allineamento con la palpebra calante e la singolare disposizione ai salti nel buio. Tipo quando decidi di berti una birra sopra un’antinfiammatorio. Leggo la sinossi, mi faccio irretire dalla sinossi, “Per dio”, penso, sembra DAVVERO un libro interessante. Maledetta sinossi. Con quelle frasi così “catchy” (ma yooo cosa-cazz-sto-scrivendo!) tipo “fine anni novanta, industria discografica, pieno periodo Brit Pop a Elle-apostrofo-ondra”.
Bastano due-tre citazioni a Radiohead, Oasis, Blur e Kula Shaker e sono già coi pantaloni calati a dare fiducia a quest’opera prima di tale John Niven, fino ad oggi conosciuto solo come “quello che ha scritto quel libro in cui in copertina c’è un simil J.C. Jesus Christ”. Una fiducia che viene ripagata con uno stronzo cagatomi tosto sulla mano destra e conseguente obbligo a dovermi auto-prendere a schiaffi.
Se questa intro, come al solito lunga e fine a sé stessa, non vi ha annoiato come ha annoiato me, andiamo di giustezza al punto. Niven deve avere dei problemi di personalità, che mi auguro a partire dal secondo libro siano stati risolti, ma con questo emergono spiccatamente, malamente, inesorabilmente e tutta una serie di altre parole che finiscono con “ente” che vi possano attraversare l’anticamera del cervello. Jey Enn si crede Bret Easton Ellis. E non con qualche timido, tenero, ammiccamento stilistico al papà di American Psycho. No. In pratica lui PRENDE American Psycho e lo riscrive da capo in salsa “Anarchy in the UK”.
Steven Stelfox è il suo Pat Bateman, un addetto ai lavori nell’industria discografica, che lavora per un’etichetta in un costante turbinio di “striscia di coca”, “mi ubriaco”, “prenoto una escort che non va a benzina ma a sperma”, “mi ubriaco”, “lavoro non facendo un cazzo ma mettendo assieme tutte le attività di cui prima” e “affronto la truce vita con un cinismo sottile come una lama di rasoio”. Ah dimenticavo “sono candidato al miglior attore protagonista come miglior figlio di puttana della Via Lattea”.
Questo è il libro. Dove la mia spasmodica ricerca di una spina dorsale, di un’ossatura di storia principale, si scontra dopo più metà del libro con la consapevolezza che quello che ho fra le mani è un povero essere invertebrato non adatto a stare dritto in nessun modo, neanche con una scopa ficcata su per il sedere. Il paradosso è che quella che dovrebbe essere la base narrativa si riduce a diventare un sottotesto sfumato dietro al puntuale, ripetitivo e noioso resoconto di tutta la vita di eccessi del buon Steven.
Ho letto qualche opinione che parla di “libro dissacrante”, di “grottesca allegoria dell’industria musicale da crepar dal ridere”. Seriamente, non è che a scrivere ste cose vi siete per caso calati qualcosa prima?
Ok. Il libro è scritto bene, riesce anche abbastanza a prendere in certi punti, ma parlare in sti termini di una brutta copia di American Psycho è un’offesa all’intelligenza di chi vi legge. Niven voleva lanciarsi a pesce e con entusiasmo in un primo libro che, forse, raccontasse di quanto è cazzuto e violento e gretto e meschino e bla bla bla il mondo delle etichette che in prima persona lui conosce molto bene, ma nel farlo si è impegnato la personalità in un banco dei pegni, barattandola con tante idee riciclate e spruzzate di dettagli truci che non servono, come anche in molti casi per Ellis, ad una sega.
Come si sarà capito, per me il libro è un “NO” netto, deciso e totale. Perché un marchettone spudorato di tante altre cose, perché alla fine non ci credi che tutto finisca esattamente come finisce, stando lì a chiederti “ma che cazzarola ho appena letto?”. Ciò nonostante penso che prima o poi darò un’altra chance all’autore-che-ha-scritto-il-libro-con-quel-proto-Gesù-in-copertina, se non altro per scoprire se è tornato al banco dei pegni a riprendersi un minimo di amor proprio.
Maledette caramelle, maledetti sconosciuti, maledetto me!