Niente da fare, è ufficiale: quella per la letteratura e i reportage legati ad imprese alpinistiche sta diventando una scimmia nella scimmia. Una scimmia a matrioska, insomma. Se già la mia malsana ossessione per le biografie (che ogni tanto lascia sorpreso anche me) era da patologia ossessivo-compulsiva, la nicchia che si sta scavando il tarlo di leggere resoconti di personaggi che hanno scalato la qualunque, sta diventando più importante del Traforo del Frejus.
Batti e ribatti, alla fine, il grande protagonista che la mia ossessione cerca come un cane da tartufi è sempre lui: il Nanga Parbat. La montagna più “grossa” del pianeta (intesa come estensione), uno degli ottomila più difficili, di quelli in cui il campo base rappresenta il “delta” più marcato rispetto alla vetta finale (4.000-4.100m per il primo, 8.126m per la seconda).
Simone Moro, che non penso sia il caso di stare qui a presentare, in questo libro racconta della sua (per certi versi anche controversa) spedizione del 2016, quella in cui assieme a Tamara Lunger, Alex Txikon e Ali Sadpara lo ha visto completare la prima scalata invernale della “montagna del destino”. Senza ossigeno e per la via “classica”. Dove “classico” qui fa abbastanza ridere, visto che l’immagine che si potrebbe evocare davanti a tale termine, tipo sentiero con i fiorellini e gli arcobaleni, corrisponde in realtà ad una sorta di pass turistico per un girone infernale al contrario, dove le temperature del tuo freezer di casa sono l’equivalente delle Maldive.
Lo dico subito, se vi aspettate un libro scritto super bene, in maniera catchy (ora che ho scoperto questo termine lo userò tipo sempre) e volto a pigiare l’acceleratore sul romanticismo quasi romanzato alla “esploratore solitario”, lasciate perdere. Lo dice anche Moro stesso nella sua postfazione: questo libro poteva essere scritto meglio? Avoglia. Poteva essere scritto con qualche orpello in più, con qualche emozzzione raccontata in più (fondamentale il numero di “z”). Absolutely.
Ma non è questo il punto. Non mi va di parlare troppo di un libro che poteva essere, ma del libro che invece è. Ed è un libro estremamente concreto, sicuramente lento e stilisticamente “povero” in alcuni punti ma sapete una cosa? Chi-se-ne-fotte. Stai leggendo di un resoconto di una spedizione, diventata storica, sul Nanga Parbat. Stai leggendo di fatti, che filtrano emozioni, che sottendono esperienze, che nel sottotesto si percepiscono veramente difficili da trasmettere su carta e di conseguenza ad un lettore. Fatti che in certi momenti diventano così grandi per cui forse, e sottolineo forse, in un’epoca storica in cui siamo abituati alla sovra-informazione dettagliata di qualsiasi aspetto riguardante la vita di qualcuno, lasciare l’anima scarna del fatto e far sì che questa si costruisca da sola all’interno di un lettore, a seconda della sua sensibilità, non è una scelta così sbagliata.
Ho scritto un periodo più lungo di una salita da campo base a campo tre senza respirare e stringendo le chiappe.
Cosa ho apprezzato di questo libro, quindi? I fatti. I puri e semplici fatti. Che raccontano di come si è arrivati a costruire la spedizione, raccontano di molti tentativi negli anni precedenti, tentativi andati a male ma che, in ogni caso, costituiscono un piccolo tassello del puzzle in grado di portare al successo la scalata del 2016.
Perché prima ho aperto quella parentesi con un misterioso “per certi versi controversa”, riferito alla spedizione? Perché come le cronache, loro malgrado i social e (sopratutto) loro malgrado i fantastici tifosi/leoni da tastiera hanno potuto documentare, nel 2016 Moro e la Lunger erano partiti per fare squadra a sé, progettando di scalare il Nanga Parbat per la via Messner (mai completata d’estate, figuriamoci d’inverno). Ecco, se la via “classica”, la Kinshofer, viene definita “facile” ma più lunga, perché necessita di essere attrezzata con corde fisse, vi lascio immaginare cosa voglia dire provare l’altra.
Moro e la sua compagna di cordata rinunciano solo dopo aver constatato l’infattibilità della cosa, per quell’anno, perché il loro progetto di salire su quella via diventa troppo rischioso a causa del meteo sfavorevole. Ed è qui che spunta Alex Txikon, a capo di una delle altre spedizioni che in quel periodo animavano il campo base. Txikon fa squadra con Sadpara e Nardi. Yes. Proprio lui. Quel Daniele Nardi che sul Nanga Parbat ci ha lasciato più che le sue impronte e le sue corde. Insomma per farla breve quelle che erano due squadre diventano una squadra, un unico team in cui però Nardi viene messo da parte e si troverà poi a far armi e bagagli per tornare a casa. E qui si inserisce la cronaca di cui sopra, con teatrino social annesso e connesso e relative tifoserie schierate. Ora, io una mia idea me la sono fatta, in generale. Sentendo tutte le campane, leggendo il leggibile, ascoltando l’ascoltabile e così via. Invito solo chiunque a fare lo stesso, senza voler aggiungere legna da ardere su un fuoco che in certi casi ancora brucia, malgrado uno dei protagonisti dell’intera faccenda non sia neanche più in vita.
Torniamo al libro. Poteva essere scritto con cento pagine in meno? Secondo me sì. Avrebbe avuto senso scriverlo con cento pagine in meno? Secondo me no. Ho chiaramente dei problemi? Secondo me, assolutamente sì.
Scherzi a parte (nascondo bene i miei problemi), i cosiddetti “tempi morti” che vengono documentati da Moro, a me sono comunque piaciuti. Perché alla fine, ripeto, si voleva raccontare una spedizione e non mettere giù un racconto di montagna in salsa Hollywood. La narrazione fa quindi capire quali e quanti siano i tempi di una spedizione, fatta per lo più di attese, di gesti ripetitivi, di tentativi di salire piano piano a piazzare i vari campi sempre più in alto, sperando di poterli usare per acclimatarsi. Il tutto con l’incognita del tempo e di come cazzen gira di fare alla montagna. Un momento piazzi campo uno, campo due e sei lì che hai la botta di presa bene per farti un campo tre e poter passare la tua notte a MENO CINQUANTA SOTTO ZERO, che la montagna decide di far staccare due-tre valanghe che ti fanno rizzare i peli al punto che a momenti ti bucano la tuta.
Insomma questo libro è un reportage e l’ho apprezzato in quanto tale, va contestualizzato in quanto tale. Molto diverso dalla narrazione che ho trovato nel libro di Messner, molto più pragmatico e concreto. La cosa in comune? Il Nanga Parbat e il fascino magnetico che riesce ad esercitare su un essere umano, anche solo dalle righe di un libro.