Questa è la storia di una recensione menomata. Menomata perché sto scrivendo in una posizione alla “Stephen Hawking” (buonanima) causa lussazione spalla e, diciamola tutta, anche un po’ “palle”.
Benissimo, dopo captatio benevolentiae in stile Piccola Fiammiferaia lanciamoci sulla mia ennesima lettura a tema “montagna e tutte le cose che possono capitare quando decidi di scalare un ottomila”. Sto libro mi è stato consigliato su Anobii e siccome l’aura di supermegapolemica che lo circondava è andata a stuzzicare il mio animo da portinaia dei peggio condomini di Caracas, non ho davvero saputo resistere.
Alla penna Jon Krakauer, che ha un cognome troppo difficile da scrivere con una mano (e mezza) sola e che quindi da questo momento diventerà Krumiro. Bene Krumiro è un ormai ex alpinista non professionista che si guadagna da vivere scrivendo e gira che ti rigira la rivista “Outside” decide di proporgli di fare un pezzo sulle spedizioni commerciali sull’Everest. Con tanto di vitto alloggio e scalata pagata. Boom. Insomma per capirci si tratta almeno di settantamila dollari, nel fu 1996, per poter mettere il proprio naso al campo base dell’Everest con diritti bollati per poterlo scalare e, perché no, rischiare anche un po’ la vita.
Krumiro non lo sa, perché pensa solo al suo fanciullesco desiderio di scalare la big mountain, ma sta per cacciarsi in quella che verrà consegnata alla storia come la peggior tragedia degli ultimi anni, con otto persone a lasciarci le penne e altre a salvarsi per il rotto della cuffia. Questo libro, assieme a quello della guida russa Boukreev, sarà d’ispirazione al film del 2015 “Everest”, con un fottio di attori famosi che fanno ruoli secondari e un fottio di attori non famosi che fanno ruoli principali. Che se ci pensate è alla fin fine poi la metafora della vita degli Sherpa.
Krumiro ci consegna una narrazione accattivante, dichiaratamente affrontata con il piglio del “scrivo per esorcizzare ciò, che ho scritto, per dare un senso alla tragedia”, che ok ci sta, ti incute anche quel rispetto che comunque va tributato ai sopravvissuti, però alla fine a mio modo di vedere si va lentamente sciogliendo in una brodaglia dal sapore non ben definito di fatti mischiati con opinioni e impacchettati in chiavi di lettura forse un po’ troppo azzardate per uno che comunque l’alpinismo dice di averlo vissuto.
Come detto il resoconto si fa leggere e ti prende, non sorprende sia diventato gran parte una sceneggiatura e non sorprende neanche il fatto che Krumiro ad una certa, forse senza neanche rendersene conto e sicuramente (qui spezzo una lancia a suo favore) senza volerlo di proposito, si erge a Puffo Quattrocchi della situazione, andando a questionare dinamiche e situazioni che a certe altitudini e con certe premesse di partenza mi viene davvero difficile andare a questionare.
Sicuramente emerge in maniera chiara e lucida il controsenso delle spedizioni commerciali su una montagna come l’Everest, un paradosso ancor più marcato, ai miei occhi che potrebbe passare dal decidere di far prendere il porto d’armi a un bambino di sei anni. Ad affollare le cinque spedizioni del 1996 erano in maggioranza persone comuni che con più o meno sacrifici avevano raccimolato la somma per aggregarsi ad una squadra e cercare di raggiungere il tetto del mondo senza esperienza, con scarponi nuovi di pacca tirati fuori dalla scatola ancora con lo scontrino e con il dichiarato mantra “Scalo l’Everest perché posso farlo”.
Ecco, in questo si racchiude l’essenza della cazzata di fondo che può solo accompagnare una tragedia. Era il 1996 eppure già si avvertiva quell’effetto odierno del “tutti che possono fare tutto, basta volerlo”. Basta avere i soldi, basta avere la passione, oppure basta Google, grazie al quale ormai possiamo dirci luminari in qualsiasi ambito, dopo aver schivato due tre clickbait e letto cinque titoloni su “nontelodicenessuno.biz”.
Krumiro non prende una posizione netta. Perché a volte sembra condannare questa commercializzazione, in maniera anche abbastanza netta, in altri momenti va a far la morale al comportamento delle guide, che secondo lui avrebbero dovuto fare “x y e z” perché “alla fine son cliente e devono starmi dietro”. Insomma non mi è molto piaciuto questo livello multiplo di sospensione del giudizio, sulla base che questo possa essere più o meno opportuno rispetto alla situazione narrata.
Penso, presumo, sia proprio il motivo che ha spinto Boukreev a scrivere la sua versione degli eventi, sentendosi come altri in un certo qual modo “attaccato” dal resoconto di Krumiro. Penso a sto punto leggerò anche l’altra campana, se riuscirò a trovarla, ma questo libro mi ha lasciato una forte sensazione di chiaroscuro che sicuramente non mi fa pendere da nessuna parte in particolare.
Consiglio in ogni modo la lettura, fosse anche solo per toccare con mano quanti cazzi e mazzi possono nascondersi in una spedizione che di “commerciale”, a mio modo di vedere, non dovrebbe avere proprio nulla.
P.S. Comunque Krumiro è l’autore di “Into the wild”, che se il libro è come il film mi sa un po’ na paraculata.