“La Morte dell’Erba” ci viene gentilmente offerto, come romanzo, da quella fantastica collana che risponde al nome di “Urania”. Un nome una garanzia, almeno per me, visto che ho veramente faticato a trovare cagate cosmiche in quel gran calderone che a mio avviso un po’ impropriamente viene definito “letteratura di fantascienza”.
John Christopher non è John Christopher, bensì uno pseudonimo di Sam Youd. Perché scrivere con uno pseudonimo? Non lo sapremo mai. Quel che invece possiamo sapere e constatare con mano tecnico-tattica è come abbia saputo sfornare un libro vincente e convincente, un libro che parte dalle regole base del “post apocalittico” e tira fuori una storia in grado di agitarti dentro, farti riflettere e immaginare scenari come solo certa letteratura “sci-fi” degli anni ’50-’60 sapeva fare.
Yes, ladies and gentlemen, “La Morte dell’Erba” è stato scritto nel millenovecentocinquantasei, ma preso in mano adesso, a più di sessant’anni di distanza, colpisce ancora duro e puro proprio qui, alla bocca dello stomaco. Salvo poi darti tantissimi calcetti nelle palle di contorno che stanno a sottolineare la mai banale capacità di sorprenderti.
Il romanzo è ambientato in una Londra che ha da poco conosciuto la fine della seconda guerra mondiale. Le vicende vedono al centro la famiglia Custance, con John che è una sorta di super ingegnere civile bello borghese e suo fratello, che invece è il contadino di casa, che decide di portare avanti la fattoria di famiglia ereditata dal nonno comune.
Una situazione standard-bucolica, uno super easy con la sua vita da cittadino con conoscenze “in”, l’altro scapolo suo malgrado, che si spacca la schiena fortissimo nei campi ed è fra i primi (come gli altri contadini) ad annusare la big tragedy all’orizzonte.
Chung-li virus: parte dalla Cina, non ha nulla a che vedere con quello che sarà il personaggio di “Street Fighter” e in poco tempo diventa la miccia in grado di mettere in ginocchio l’umanità. Come? Attaccando, semplicemente, tutte le piante appartenenti alla famiglia delle graminacee. Quindi no grano e affini, soltanto putrida erba che si va man mano annerendo con grande disappunto di tutti i giocatori di golf del mondo.
Ovviamente mentre ad oriente tutto inizia ad andare in vacca, l’aplomb inglese si manifesta tutto nella fermissima convinzione che gli scienziati sapranno fare il loro, troveranno un modo di arginare il virus e che l’inizio dei razionamenti di cibo altro non è che un gesto di civiltà per tenersi il sedere al caldo CASOMAI si dovesse passare un inverno facendo un po’ attenzione alla dieta. Non la pensa così Roger, amico di John, che ha dei ganci super paraculi nel governo centrale di cui è uno dei portavoce. Se il fratello di John la sente arrivare, Roger praticamente la vede arrivare. Cosa? La montagna di mierda che si abbatterà sui nostri eroi nella forma di bandiera bianca della scienza davanti all’aggressività del virus (presi a grandi schiaffoni tutti) e conseguente inizio del caos psicotico generalizzato.
Ed ecco la parte più bella e significativa dell’intero libro: quando il mondo inizia ad andare in vacca, cosa fanno gli esseri umani? Cosa fa quello che fino a ieri era il tuo amabile vicino di casa? Volete l’aiuto da casa? La sapete? Vabeh ve lo dico io. Schifo. Fanno tutti abbastanza schifo. Per necessità, per scelta, perché cambiano i tempi e la scala di valori. John ci mette veramente poco a switchare da una modalità “cerchiamo di fare la cosa giusta” ad una “ma ammè chemmenefrega ammè io c’ho il diesel” cit.
I Custance faranno di tutto per poter sopravvivere e raggiungere il fratello, che saggiamente si era barricato nella fattoria potendo sfruttare la conformazione morfologica della zona in cui si è sempre trovata (all’interno di una comoda vallata aperta solo da un lato, tatticamente rinforzato dal good old farmer). Se all’inizio del libro il cinico di fiducia sembra essere Roger, avvezzo alle schermaglie da public relations del suo ruolo, John gli ruberà la scena tempo zero, tirando fuori dal cassetto dei ricordi non solo le vecchie fotografie di quando faceva le scalate in montagna col fratello, ma sopratutto le esperienze vissute in Italia durante la Guerra.
Tre due uno e gli uomini diventeranno dei veri e propri lupi, con un piglio narrativo che prende il lettore e lo affonda in maniera a tratti viscerale nei conflitti morali che tante situazioni che occorrono vanno alla fine a suscitare. Ammetto che per l’epoca stiamo parlando di un libro che trovo parecchio violento, in cui la sospensione della moralità viene farcita di stupri, pedofilia, omicidi e tutto il campionario completo delle schifezze che il nostro bel genere umano è in grado di tirar fuori proprio quando invece servirebbe tirar fuori altro.
D’altro canto il libro suggerisce, allora come oggi, una semplice domanda a cui tutti forse abbiamo realmente paura di rispondere: in un mondo in reale difficoltà, come sapremmo reagire? Come potremmo diventare? Come potremmo cambiare?