First step: il libro mi è stato consigliato e mai consiglio posso dire essere stato più gradito, esattamente trenta nanosecondi dopo aver chiuso l’ultima pagina. Second: a volte per capire le cose, per provare ad entrare in una dimensione diversa delle prospettive, non c’è niente di meglio di una storia. Che lo sai che è una storia, ma che è così ben raccontata e verosimilmente calata nella realtà, che alla fine diventa solo un mezzo al servizio di un messaggio.
E qui, ladies and gentlemen, il messaggio è potentissimo. Quel genere di sconvolgimento sinaptico che ti manda in cortocircuito i pensieri, perché con le parole ti fa calare in una realtà completamente diversa, vissuta da chi ha una pelle che non è quella del tuo pantone-color, e in un batter d’occhio ti ritrovi coinvolto in una vicenda che ti si piazza lì sulla bocca dello stomaco. E ci rimane, e so già che ci rimarrà per qualche giorno.
Angie Thomas dà vita a Starr Carter, una sedicenne afroamericana che vive nel “ghetto” immaginario di Garden Heights ed è divisa fra una vita immersa nel cuore e nelle vicende della sua comunità e una che la vede frequentare una scuola privata “da bianchi”, dove è un’altra persona. Starr vive le contraddizioni e i problemi di una normalissima adolescente, ma si trova sulle spalle due fardelli importanti, di quelli che, per capirci, come minimo ti garantiscono un abbonamento lifetime a Amazon-strizzacervelli-prime. Assiste alla morte, per mano di una gang, di una sua amica d’infanzia e poi, in perfetto stile “American Police”, a quella di un suo caro amico, con cui si trova in macchina e che ad un fermo della polizia fa cose che assolutamente non si dovrebbero mai fare, tipo chiedere “perché mi state fermando?” e non rimanere perfettamente immobile mentre ti dicono “hai un fanale rotto”. Tutte quel genere di cose tremende che negli USA se sei afroamericano valgono minimo tre buchi di pallottola in pancia. To-serve-and-protect. Hashtag #ciaone.
Questo avviene subito, a inizio libro, quando ancora stai cercando di capire che tipo di storia ti attecchirà addosso. E la Thomas allora ti lancia subito così, de botto, questa cappa di ingiustizia viscerale che ti senti crescere sfogliando pagina dopo pagina. Perché se la morte di Khalil diventa il trigger degli eventi, questi eventi si inseriscono in un microcosmo sì finzionale ma perfettamente verosimile, che ti trascina per le orecchie nei meandri di un proto quartiere-nero ammeregano. In tutte quelle sfaccettature che partono dalle gang che si sfidano per il controllo dei territori, passano per i giovani che come prima prospettiva trovano sistematicamente prima sempre quella di una strada sbagliata piuttosto che di un’alternativa costruttiva e cercano di spiegare le radici e l’origine di quella rabbia che molte volte si è vista e si vede esplodere quando qualche poliziotto, solitamente bianco, decide di “servire e proteggere” in maniera, diciamo, creativa.
The Hate U Give è un libro bellissimo. Lo è non solo perché è scritto bene e in maniera coinvolgente, lo è perché getta un ponte verso chi, come me, non ha proprio i riferimenti socio culturali per poter capire certe cose. Perché mi è sempre stato sul cazzo pensare che per supportare e dimostrare di capire un qualcosa bastasse, basti, mettere la propria immagine di profilo social con un bel quadrotto “nero”. Perché essere afroamericano in un paese come gli USA è un qualcosa che solo un afroamericano può comprendere, può provare a raccontare e ha, sopratutto, il diritto di raccontarlo con le parole che meglio reputa opportune. In questo sento di dire un grossissimo grazie ad Angie Thomas, perché con una storia, con una finzione che purtroppo troppe volte diventa la replica di una cruda realtà di fatti di cronaca quotidiana, prova a darmi degli spunti per entrare in una dimensione che non posso conoscere e per quanto mi sforzi, viene difficile immaginare provenendo dalla realtà cui appartengo.
Il libro ovviamente lo consiglio fortissimo e fra parentesi, per essere l’esordio di una scrittrice, sticazzi che roba.