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14 Dicembre 2021
Colson Whitehead – Zona Uno

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Colson Whitehead – Zona Uno

C’è del romanzo in questo grandissimo caos che è “Zona Uno”. Iniziato con le migliori intenzioni, quelle del “ahh finalmente un altro bel libro di quelli che mi piacciono di brutto”, quelle del “dopo un lunghissimo periodo di magra mi ritrovo tanta roba sul tema post-apocalittico che non vedo l’ora di inocularmi per via nasale”, ecco, quelle. Disatteso tutto, subito, dopo poche pagine. No, neanche. Dopo un tre-quattro paragrafi. Una cosa che difficilmente capita, eppure il buon Colson ci è riuscito subito: a smontare tutto il mio entusiasmo praticamente alla partenza.

Mi sono guardato allo specchio, ho stretto lo zaino, contato le razioni di viveri, fatto mente locale sulla situazione e detto al mio riflesso preoccupato: “sarà un libro molto lungo e difficile”.

“Zona Uno” è ambientato in un mondo decisamente post-apocalittico, in cui l’umanità paga le conseguenze di una very strange pandemia in grado di trasformare gli esseri umani in una versione di zombie particolarmente vivace e attiva. Di quelle che vogliono sempre mangiare chiunque respiri ancora di propria volontà, ma che cercano di raggiungere il proprio obiettivo non trascinandosi stancamente, bensì scattando, saltando e muovendosi in maniera tarantolata. Tipo gli americani in quei filmati da apertura centri commerciali al black friday, presente? Ecco così. Solo che invece della roba questi cercano di azzannarti la giugulare.

Il grosso problema di questo libro, quindi, non è tanto l’ambientazione, che Whitehead riesce a rendere in maniera assolutamente convincente, nei modi verosimilmente plausibili che tanto mi aggradano e sollazzano. No, il grossissimo problema di “Zona Uno” è che la narrazione è uno stramaledettissimo caos che ti fa procedere a tentoni, al buio, in una stanza che sai essere disseminata di mattoncini Lego che prima o poi ti faranno tirar giù tutto il calendario. Garantito.

Mark Spitz è il protagonista che il nostro host sceglie per farci fare un tour guidato dell’isola di Manhattan, che quel che rimane della resistenza “iu-es-sei” sta cercando di riprendersi in uno slancio di illusoria utopia di ritorno alla vita com’era una volta. Tramite il suo medium, quindi, Colson ci getta in un complesso e tortuoso iter narrativo fatto di flashback, riflessioni estemporanee, ricordi dentro i flashback o arzigogolate seghe mentali all’interno delle stesse arzigogolate seghe mentali, per cui il più delle volte ti senti come quando hai piegato accuratamente il filo dei tuoi auricolari, l’hai messo in tasca pensando “ecco, così quando mi serviranno troverò tutto pronto all’uso” e invece dopo manco tre secondi la tua mano ritrova lo stesso filo con un campionario di nodi da marinaio che pure Capitan Findus rimane senza parole.

Il plot, quindi, è di per sé molto semplice e basico: mondo post apocalittico, genere umano che cerca di riorganizzarsi davanti a queste orde di ex-concittadini sbrodolanti, storie di sopravvissuti, centri in cui si organizza la “resistenza”, tanto tanto corollario di contorno. Il problema è che questo romanzo pare essere esclusivamente costruito proprio solo sul contorno, perché il midollo, la sostanza, alla fine non spunta fuori e arrivi alla fine di tutto quanto dicendoti “ma scusa e adesso?”. Ti sei sciroppato pagine e pagine di confusi intrecci narrativi in cui non sai più se il protagonista si trova in un presente attuale o si è perso in uno dei suoi ricordi dell’inizio di tutto il caos, hai ormai compreso come la sua personalità complessa si riverberi su tutto ciò che lo circonda in maniera massiva e osmotica e mentre sei lì che speri tutto quanto si possa chiudere per dare un senso alla storia, Whitehead ti sbatte in faccia un cartello con su scritto “the end motherfucker!”.

Perché? Perché al netto di un universo narrativo così vivido e convincente non riesci a darmi la tanto agognata soddisfazione? Caro Colson, non puoi pensare che basti creare un bellissimo pacchetto regalo se poi dentro non sai bene cosa metterci, mannaggia a te. Per carità la carta che hai scelto è bellissima, anche il nastro per chiudere tutto è veramente d’impatto, figurati lo scotch per tenere tutto assieme neanche si nota. Poi però arrivati al dunque, apro sto inno alle marmotte che confezionano pacchi regalo da guinness dei primati e non ci trovo proprio niente. Mi fai piangere così!

In sostanza il libro è interessante, ma ti lascia col sapore agrodolce di un ceffone che tua madre ti ha dato, senza saper bene perché te lo sei meritato.

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