Rieccoci qui, Chuck Palahniuk, rieccoci, ancora una volta, qui. Dove per “qui” si intende quel lasso di tempo che intercorre fra il leggere, proprio lì in cima alla copertina del tuo ultimo libro, “L’attesissimo ritorno alla narrativa di Chuck Palahniuk”, e il conseguente respiro modulato a mo’ di iperbolica rappresentazione di un mio normalissimo “inspira-espira” ma, appunto, esasperato. In una forzatissima ricerca della volontà di girare la prima pagina e vincere il timore di essere deluso. Ancora una volta.
Parliamoci chiaro, Chuck Palahniuk, ho amato i tuoi libri consigliandoli in lungo e in largo quasi alla stregua di una caricatura grottesca di un fanboy, fino a quando qualcosa si è rotto. Fino a quando qualcosa ha iniziato a farti diventare l’ombra di te stesso e tutta quella spiccata e spiazzante originalità l’hai fatta diventare un marchio di fabbrica inscatolato, brevettato e reiterato. Una macro su un foglio di calcolo, una routine narrativo-letteraria, una sensazione costante di dejù vu appiattiti e pesanti. Come quando hai ascoltato così tanto e così a lungo un particolare gruppo, di quelli che rimangono immutati nel tempo, e ti bastano due note per capire che il loro ultimo lavoro è semplicemente “una copia di una copia di una copia di una copia”. Rings a bell? It should!
A nessuno piace perdere tempo e non mi piace farne perdere a chi casomai decidesse di leggere ste robe che spaccio per recensioni, quindi lo dico subito: il libro, in generale, non mi è piaciuto. Di certo meno peggio delle ultime menate che mi è capitato di leggere del buon Chuck, glielo concedo, ma in linea di massima siamo più sul #teamdelusi che altro.
Bene, ora che ho spiattellato il giudizio, andiamo avanti con questa tortura e facciamolo in modo creativo: tutti i miei spocchiosissimi punti di vista questa volta organizzati come se mi auto-intervistassi, per far emergere in tutto il suo splendore il bel disagio che mi ha procurato questo libro. O forse da cui sono afflitto in maniera nativa, chi lo sa.
D: Ben trovato carissimo, accomodati pure e grazie per la disponibilità a questo scambio di battute.
R: Figurati, il tempo per te che sei nella mia testa lo trovo sempre e molto volentieri, vogliamo iniziare?
D: Certo, iniziamo, posso registrare tutto? Scoccia?
R: Prego fai pure, dimmi se per caso inizio a gesticolare, che divento irritante quando gesticolo, tu lo sai bene.
D: Ah ah ah, certo, bene, iniziamo a bomba: Chuck Palahniuk “L’invenzione del suono”, ti ha colpito?
R: Sai, amico mio, non so come dirlo in maniera stringata ma ci proverò: mi ha colpito in maniera completamente calcolata. Come quando un piccione ti caga con precisione millimetrica sulle tue scarpe nuove. Non sai quando potrebbe accadere, ma sai benissimo cosa succederà quando questo accadrà. E così è stato per questo “L’invenzione del suono”. Che è stato così dannatamente “Palahniuk” fin dalle prime pagine. Questo spasmodico aggrapparsi ai suoi capisaldi narrativi come se fossero una coperta di Linus, una comfort zone difficile da stravolgere.
D: Parole dure, parole dure di un uomo davvero strano. Spiegaci meglio.
R: Volentieri, ma “spiegaci” in che senso? Ci siamo solo io e te qui. O meglio io e basta. Mi spiego? Mi spiego. I personaggi, caro il mio intervistatore immaginario, quelli che Chuck ogni volta prende ed esaspera in maniera così esagerata che vien quasi da chiedersi con quali paia di occhiali osservi sempre il mondo della sua narrativa. Un mondo puntualmente fatto di cose che non sono quel che sembrano, di ordinari uomini che nascondono torbide vite, di torbidi uomini che palesano ordinarie vite, di donne mistress che partono dal sembrare vittime e finiscono per essere carnefici più o meno inconsapevoli e dalle pillole. Pillole, alcool e sesso disturbato un tot al kg. Cose, come purtroppo ormai gli capita in maniera automatica negli ultimi libri, campate non tanto ai fini di una funzionalità della sua storia quanto al volersi garantire il proprio “imprinting narrativo”.
D: Bella supercazzola ma in soldoni? E comunque hai iniziato a gesticolare!
R: Grazie, smetto subito. Cosa volevo dire? Intendo dire che trovo stucchevole questo dover, quasi per forza, caratterizzare i personaggi sempre con gli stessi tratti. In ogni libro, a prescindere dalla storia che ha in testa di raccontare. Ti dirò una storia che alla fine della fiera è anche interessante, non fosse che appare proprio soffocata dagli orpelli che deve mettere. Quasi che ad ogni pagina abbia la necessità di farti aprire uno di quegli irritanti popup dei siti internet che ti dice “hey stai leggendo un libro di Chuck Palahniuk se non te ne sei reso conto, ci hai fatto caso? è proprio un mio libro quello che stai leggendo!”
D: Fermi tutti però: la storia l’hai trovata interessante o sbaglio?
R: Mmh mmh, sì e devo dirti che per questo non riesco a considerare il libro un pieno fiasco. La storia c’è, nonostante i suoi buchi, nonostante alcuni salti forzati che ancora adesso non ho ben capito, però il libro me lo sono letto di filato anche perché volevo capire come tutto quanto andasse a finire.
D: Ah! E come va a finire?
R: Lo sai come la penso sugli spoiler.
D: Ma qualcosa non la puoi proprio dire?
R: Cosa posso dirti. Il libro è scritto bene, di quella scrittura ammiccante e accattivante simile ad un montaggio cinematografico incalzante. La storia è una storia di vendetta, manipolazione, ricerca di catarsi e finalone “alla Palahniuk” in cui tutti vissero disturbati e contenti alla maniera in cui penso lui intenda un happy ending. Ecco, sul finale non ci siamo.
D: No?
R: No, per niente. Detesto i libri in cui finisci tutto quanto e sei lì a chiederti “ma cos’ho letto?” e “fermi tutti, qui i conti non tornano, ci sono robe in sospeso, lo scontrino non corrisponde a quanto ho comprato, voglio parlare con qualcuno!”
D: Direi che il nostro tempo sta per finire, hai qualche consiglio per i nostri lettori?
R: Sì, certo, se volete iniziare con Palahniuk tornate ai primi libri e lasciate perdere queste pallide imitazioni di uno scrittore che per me si è ormai un po’ perso per strada, diventando l’ombra di se stesso, imprigionato quasi dai cliché che si è costruito nella sua golden age.
D: Grazie per il tuo tempo, direi di tornare alla normalità prima che questo sdoppiamento sfoci in schizofrenia
R: Come darti torto.