Dopo tempo immemore eccomi riprendere in mano un libro. Il break pendolarizio che mi obbliga al “the office” è ovviamente la scintilla ideale per far scoppiare nuovamente la voglia di affrontare la lettura di qualcosa. Quel “qualcosa” è stata subito la “voglia di qualcosa di buono, Ambrogio”, immaginandomi pronunciare il tutto in una fantomatica pubblicità post-anni-ottanta in cui un sempre fantomatico maggiordomo, guardandomi dallo specchietto retrovisore, mi dice semplicemente: “John Williams, signore?”.
Cazzo sì, Ambrogio, John Williams è esattamente quel “qualcosa di buono” che ci va per sconfiggere la mestizia del pendolarismo. E allora perché non prendere il suo primo romanzo? Perché non gettarsi alle radici di Williams, a quello che è stato il suo debutto nel mondo letterario? Appunto perché no? Semplice, perché alla fine la cosa sai già che ti costringerà a scendere a patti con il fatto che la produzione del buon John è più breve di quel che tutti quanti avremmo voluto, perché wikipedia è impietosa nel sottolineare come i romanzi da spuntare dalla lista siano solo quattro e la mia testa ancor più impietosa nel ricordarmi che di quei quattro, con questo, arrivo già a tre letti.
Williams è un maestro. Punto. Lo è in qualsiasi cosa mi sia capitata di leggere. Lo è per la sua incredibile capacità del trasformare l’ordinario e vestirlo, con le sue analisi, con la sua introspezione, con il suo punto di vista, di una straordinarietà che lascia sempre di sasso. Per capirci: non sono assolutamente un fan di quegli autori che si perdono in descrizioni eterne e disfunzionali solo per pompare le loro pagine di “wannabe the next Proust”, au contraire, sono proprio i primi che condanno in maniera plateale. Ma credetemi quando vi dico che John Williams le descrizioni non le spreca e non ne fa mai un esercizio stilistico fine a sé stesso. Dipinge un quadro, letteralmente. Prende le parole e come fossero colori li getta in maniera ponderata su una tela, per il gusto di farvi assaporare con calma la scena che pian piano va a comporre. La storia diventa la trama del disegno, che si intravede e su cui inizi a fare speculazioni mentre lui, tranquillo è lì che con il suo ritmo regolare pensa al modo migliore per rivelarti quel che ha in testa, in un modo così deciso e convinto che alla fine non temi mai, manco per un secondo, tutto possa rivelarsi una grossissima presa per il culo.
La storia che Williams racconta è una storia semplice, in quel modo particolare di narrarla che già racchiude tutte quelle promesse e talento che si trovano in quel grandissimo capolavoro che è “Stoner“. Il suo protagonista, Arthur, è un uomo profondamente turbato, un turbamento che ha una sua genesi precisa, svelata da Williams in maniera magistrale sapendo dosare alla perfezione i tempi e i modi in cui ci dà modo di andare a comporre il puzzle. Un puzzle di tessere che si incastrano alla perfezione per rivelarsi, alla fine, in tutte le promesse mantenute. In quel vorticoso viaggio all’interno della personalità disturbata del protagonista, in una comunione empatica che solo chi sa fare giocoleria livello “guinness world record” è in grado di padroneggiare.
Insomma “Nulla, solo la notte” è il preludio di Williams al Williams che verrà, quello che, forse, avendolo conosciuto con i suoi romanzi più noti, mi fa apprezzare ancor di più questo ground zero della sua produzione. Leggetelo, si legge in un amen, giusto il tempo di due viaggi Torino – Cintura e ritorno.