Questo libro è arrivato inaspettato come un temporale. Un mio buon amico mi dice “Merc, ti consiglio assolutamente il libro di Di Luca”. Basta quel cognome a riaccendere nelle mie sinapsi dei ricordi che affondano al periodo in cui seguivo il ciclismo con un’ammirazione dai contorni quasi liturgici. Il me adolescente che rimaneva a bocca aperta davanti alle imprese di Pantani, quello che di riflesso conosceva tutti, ma proprio tutti, i ciclisti che prendevano parte ai grandi giri, come fossero (quale erano, effettivamente) un carrozzone itinerante che si portava appresso un pantheon narrativo di personaggi, storie, peculiarità.
Passavo quei pomeriggi in compagnia della voce del duo De Zan – Cassani, che come pochi sapeva portarti dentro un mondo così semplice all’apparenza, che scoprivi invece essere così complesso nelle mille sfaccettature. Una dimensione in cui competizione, agonismo, tattiche, rivalità, azioni disperate, azioni eroiche, grandi cadute, impensabili rinascite, si mischiavano alla perfezione in qualcosa che ti sapeva rapire e tenere incollato alla TV.
Il cognome “Di Luca” evoca in un attimo tutto questo. Perché me lo ricordo benissimo con i suoi capelli biondi essere indicato come una delle giovani promesse in ascesa del ciclismo italiano. Era la fine dell’era Pantani, quello spartiacque che per me ha segnato il progressivo allontanamento dal mondo delle due ruote e non solo per ciò che han rappresentato le vicende legate al campione romagnolo. La scomparsa di Adriano De Zan l’ho vissuta come la fine di una lunga e splendida estate e ha sicuramente dato il colpo di grazia a tutto ciò che ancora mi faceva seguire in maniera viscerale quel mondo.
Ricordo molto bene la vittoria al Giro di Di Luca, ricordo aver pensato, con un sorriso nostalgico, a come finalmente era riuscito a sbocciare quel corridore che avevo visto dare spettacolo in salita agli inizi della sua carriera, quando ancora ero un aficionado e non più separato dalla distanza siderale che ormai avevo messo fra me e il ciclismo nel 2007. Questo libro è stato esattamente questo: uno sguardo nostalgico a quel mondo che avevo imparato a conoscere così bene, potendone però leggere una versione alternativa, una versione non edulcorata dalla poesia, dal romanticismo, ma calata nella dura storia personale di Di Luca, che per molti versi ha portato alla luce quelle che già al tempo percepivo come stonature.
Questo libro non suona come un’ammissione di colpa, né come una ricerca di redenzione. Almeno questo è quel che ho percepito personalmente. Ha fin da subito quasi più il sapore di una necessità profonda al voler scrivere la propria versione della storia. Della Sua storia personale. In un modo diretto, senza girare troppo attorno alle cose, senza cercare delle giustificazioni e prendendosi una lucida responsabilità di tutte quelle che sono state le scelte fatte nella vita sportiva e non.
È un libro che rivela un “sistema” più per un effetto “sponda” che per reale volontà a denunciarlo. È un “ti racconto com’è andata secondo me, poi decidi tu quali conclusioni trarre” e forse quel che spiazza è prendere proprio subito consapevolezza, riguardo l’aspetto Doping, di come sia molto facile e semplice ridurre il discorso a “mondo di dopati” e “mondo di non dopati”, quando in certe situazioni intravedi sotto pelle la presenza di un articolato sistema che rende il doping quel tabù di cui non si può parlare pubblicamente ma che sotto sotto tutti sanno essere la conditio sine qua non per potersi sedere al tavolo dei vincenti. La cosa che lascia esterrefatti è proprio questa: la naturalezza con cui un intero ambiente dà per scontato che ci sia un unico vero modo per essere realmente competitivi e combattere ad armi pari. Un mondo che purtroppo collima perfettamente con racconti di alcuni amici ciclisti, che han volutamente scelto di allontanarsi dalle competizioni perché più si andava avanti con le categorie, più certe pratiche venivano accettate come “normali”.
Di Luca, con l’aiuto di Alessandra Carati, scrive un libro che a tratti suona quasi come una lettera a sé stesso. A quel ragazzino che alle prime gare vinceva tutto e che si è “ammalato” di ciclismo. Lo fa chiarendo subito di non pentirsi mai di nessuna delle scelte fatte. Non ci si trova davanti all’ennesimo “mea culpa” del dopato (radiato a vita) che vi guarda negli occhi e vi dice un americanissimo “don’t do drugs”. La cosa che emerge (in parte anche destabilizzante per chi vive lo sport come lo vivo io, personalmente) è il chiaro messaggio “ho fatto certe cose perché andavano fatte e non c’erano altre possibilità”. È un entrare in una dimensione, una forma mentis, che sicuramente non mi appartiene e in molti punti mi viene difficile comprendere (non dico “giustificare”, perché per me è impossibile giustificare il doping). Tuttavia una dimensione che evidenzia come l’atleta sia effettivamente solo uno dei tanti fattori all’interno di un sistema pesantemente “drogato”.
È una lettura interessante, un qualcosa che sicuramente va preso con le pinze (come d’altro canto tutte quelle biografie in cui qualcuno parla di sé) ma che sa catturarti, rapirti e farsi leggere in modalità “divora-libri” in una giornata.