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14 Gennaio 2024
Justin Cronin – La città degli specchi

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Justin Cronin – La città degli specchi

Eccoci al capitolo finale della trilogia, eccoci alle seicento cinquantasei pagine che dovrebbero chiuderti il cerchio, darti la catarsi finale, infiocchettarti in ultima istanza la summa completa di tutti i nodi che vengono al pettine. Eccoci a quella che ho iniziato subito ad affrontare più come una “prova di pazienza finale” che una lettura convinta. Nei libri precedenti Cronin si è fatto conoscere e per mio modo di vedere fin troppo bene. In questo libro, quindi, sapevo che non mi sarei potuto aspettare uno stravolgimento del trend, che so, un’inversione di rotta, azzardiamo: un coup de theatre di quelli che ti fanno tirare un plateale auto-schiaffo a mano aperta sulla fronte per quanto ti senti stupido per aver capito una beneamata ceppa.

Insomma, lo sapevo. Sapevo che Cronin avrebbe trascinato pigramente i suoi personaggi fino alla fine delle loro storie e della sua storia, quel che forse mi era rimasto, come barlume minimo di interesse, era il cercare di capire più che altro il “come” avrebbe scelto di farlo.
E come lo fa?
Lo fa alla sua maniera: prendendo a prestito un po’ di stili a destra e manca, telefonandoti quasi tutte le situazioni con una prevedibilità così chirurgica che potrei aver imparato ad eseguire un intervento pneumotorace con la stessa nonchalance con cui mi piace scoppiare le bolle del pluriball, e pigiando fortissimo sul pedale della captatio benevolentiae, risultando però irritante quasi quanto un commesso di Footlocker a cui continui a ripetere “ma io sono solo qui a dare un’occhiata”.

È stata una lettura difficile, lunga, a tratti ammetto di essermi spudoratamente annoiato a morte, una cosa che bene o male con gli altri libri non mi era capitata. In questo il buon Cronin pensa di fare cosa buona e giusta nel prodigarsi in una marea di dettagli e spiegazioni contestuali così palesemente inutili da farti pensare, in maniera irritante, che ancora una volta abbia in testa l’intento unico del voler inciccire il più possibile la broda. Non si fa. A me non piace me lo si faccia così platealmente davanti agli occhi. Non l’ho mai perdonato ad autori che mi sono piaciuti e avrei difeso a spada tratta anche davanti a torbide confessioni tipo “sono di quelli che mettono l’ananas sulla pizza”, figuriamoci a Cronin che conosco da ieri e che mi ha quasi subito fatto mettere su un broncio di quelli che non riesumavo dal ’94.

L’altro fattore fondamentale nel farmi arrivare alla fine di questa trilogia, lo ammetto, è stato quello del voler capire che fine avrebbero fatto tutti i personaggi che Justino mi ha messo davanti nella sua saga. Di questo devo rendergliene onestamente atto: ha saputo accendere quel livello minimo di curiosità che mi ha fatto pensare in maniere osessivo-compulsiva “anche se so che non mi piacerà il come, voglio assolutamente sapere le sorti di tutti quanti”. Insomma ha triggerato quella che io chiamo sensibilità da soap opera che ognuno di noi, chi più chi meno, si porta appresso a volte come uno scomodo ospite, altre volte come un assolutamente non celato vanto. Per me, sia messo agli atti, è una via di mezzo.

“La città degli specchi” è un frullato gigante di salti temporali, soliti intrecci narrativi che si incrociano sempre, puntualmente, con una precisione così chirurgica da lasciarti il già citato (per gli altri libri) senso di un qualcosa di artefatto. Ai livelli di uno yogurth al gusto “Big Babol” presentato come una fragranza “centopercento naturale”, per capirci. Le storie dei personaggi si srotolano in maniera scontata, in alcuni casi quasi banale per certe scelte di plot. Ma la cosa che veramente mi fa storcere maggiormente il naso è come senza un minimo di pudore o vergogna Cronin prenda quello che è alla fine il soggetto principale di tutto il suo ambaradàn, il virus, e ne faccia una cosa no-sense. Insomma questo agente che trasforma le genti in vampiri, a seconda di un non si sa bene qual precisato principio, va ad agire in maniera diversa ora in un momento, ora in un altro, come se a determinare gli effetti collaterali siano più le simpatie dell’autore per i personaggi di turno che una ben precisa ed in un certo qual modo “egualitaria” idea di dogma narrativo sulla questione.

Una volta uno viene trasformato, poi affoga e ritorna semi-umano salvo poi però trasformarsi di nuovo, a piacimento. N’altra volta una affoga, è infetta, torna in vita e non è più infetta. N’altra volta ancora uno si infetta, mezzo muore, viene contro-infettato, ridiventa qualcos’altro e in buona sostanza questa sorta di pantheon apocalittico è così permeato di un no-sense di fondo da farti sentire un po’ preso in giro.

La conclusione è che Cronin non si capisce bene che tipo di storia volesse scrivere. Un horror? Un post apocalittico? Una storia emozionante di affrancamento dell’umanità? Una storia d’amore? Perché, ve lo giuro, quando ad un certo punto viene tirato in ballo l’ “amohhreee” come elemento in grado di cambiare la mutazione di un virus, cari miei, ho sentito la voglia di digrignare i denti fino a far diventare il mio dentista così ricco all’idea di rifarmeli tutti.

Questa trilogia non ha un’identità ben precisa ed è un peccato, perché penso che il materiale per scrivere un bel romanzo epico-cavalleresco in salsa post-apocalittica penso ci fosse assolutamente. Il problema che han avuto un po’ tutti i libri è la mancanza di mordente, questa sensazione costante di qualcuno (l’autore) che prende continuamente a prestito qualcosa (il modus narrativo) da altri autori per svolgere una trama che avrebbe dovuto scrivere con una personalità propria.

Alla fine per me il pollicione va drammaticamente in giù. Poi non ditemi che non ve l’avevo detto.


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