È stato un libro difficile, questo, direi difficilissimo. Anzi diciamola tutta: credo il libro che mi abbia preso più tempo in assoluto, negli ultimi anni, a farsi leggere. È stata una relazione di “odi et amo”, quella con questo racconto di Vinge. Iniziata sotto i migliori auspici, quelli che lo vedevano fregiato di un super premio come quello Hugo nel 1993. Per quanto lo sapessi di non essere un fan sfegatato dello sci-fi più nudo-e-crudo, mi sono detto “vabeh ma tu provaci, hai sto libro lì da almeno quattro anni, il fatto di averlo lì significherà pur qualcosa no?”.
Il fatto di non averlo mai aperto in quattro anni, comunque, avrebbe dovuto accendermi qualche campanello d’allarme. Invece no. Invece l’ho iniziato e sono rimasto in parte affascinato e in parte invischiato nella storia di “Universo Incostante”. Un libro bello? Sì dai posso definirlo un libro bello. Bello ma a tratti a mio gusto eccessivamente noioso. Spiace. Non è spocchia o mancanza di pazienza, è proprio che Vinge se da un lato riesce a costruire un intero Universo di razze aliene, sistemi planetari, zone interstellari, con un’efficacia ed una credibilità pazzesche, dall’altro per mio gusto esagera completamente nel battere e ribattere su determinate ridondanze narrative. Descrizioni su descrizioni con dialoghi su dialoghi che si capisce hanno un loro senso all’interno di una visione che va ben oltre quella degli eventi narrati.
Capiamoci: questa strategia sicuramente conferisce un valore molto alto alla portata narrativa del romanzo, ma nel contempo in molti tratti si ritraduce per me in una sovra-struttura orientata quasi più all’esercizio stilistico che alla funzionalità terra-terra degli eventi. Tanti, tantissimi, troppi rimandi a dei “non detti” che un lettore deve cercare di ricostruirsi con gli stralci di informazione di cui Vinge dissemina il suo libro. Insomma ti senti ad una certa un po’ un Pollicino che ad una certa avrebbe bisogno degli steroidi per continuare a seguire i sassolini lasciati per strada.
Lo scenario che dipinge Vernor Vinge è affascinante, insomma, alla fine non vinci il premio Hugo per sbaglio no? Un universo diviso in molti strati, in zone, ognuna delle quali è governata da proprie regole, dalle “profondità insondabili” che costituiscono la frontiera inesplorata più vicina al nucleo centrale al “trascendente”, dove entità tecnologiche e biologiche si fondono in qualcosa che diventa un concetto più vicino al divino che all’alieno. In mezzo “l’esterno” e “la zona lenta”, dove razze di vario tipo interagiscono fra loro grazie alla tecnologia, che ha proprio nei vari substrati di questo universo il proprio limite o la propria esaltazione. Completamente in controllo ed immanente negli strati più alti quanto assolutamente priva di possibilità di azione in quelli più bassi, che tendono verso le zone più profonde.
La storia è quella di un virus in grado di infettare tutto e cambiare regole fino a quel momento immutate, dove gli uomini si trovano a giocare ancora una volta il ruolo di chi tende a commettere il “peccato originale” che dà il via a tutti gli eventi. Ovviamente siamo nel 1993 e tutti i riferimenti a ciò che poi sarebbe diventata la rete e il nostro rapporto con le AI hanno un che di profetico, nella perfetta tradizione della letteratura sci-fi.
Il libro, seppur un bel mattonazzo, ha dei momenti in cui riesce a coinvolgere evitandoti quei mal di testa periodici che solleva ogni qual volta Vinge tira fuori qualche riferimento che per essere compreso ti obbliga a fermarti e far mente locale su ciò che hai scoperto fino a quel momento con i tuoi sassolini in mano.
Alla fine della fiera “Universo Incostante” è stato per me come una lunghissima camminata a piedi scalzi sopra un ciottolato cosparso di burro d’arachidi. Ogni tanto scivoli, ogni tanto un sassolino ti fa tirare giù qualche santo, ogni tanto riesci anche a goderti il panorama.