Certe cose a volte accadono o capitano solo in determinati posti o determinati momenti. Non voglio trovare in tutto questo una velata retorica fatalista, non ho mai creduto al destino e non inizierò di certo ora a farlo, però vero è che del potere dei luoghi, invece, sono assolutamente consapevole.
Ci voleva Milano, allora, per sbattermi in faccia alcune verità che forse nel mio iter quotidiano fatto di sveglia, macchina, tangenziale, lavoro fitto e poi di nuovo tangenziale, se ne stavano anestetizzate e latenti. Una singolare condizione, come quella di chi sente che qualcosa non va ma non vedendo sintomi, non vedendo ferite sulla pelle, sceglie di non preoccuparsi, perché infondo, forse, è solo una sensazione illusoria. Ci è voluto il ritmo completamente sfasato di una città che proprio non riesco a digerire, l’odore dei treni regionali che da Chivasso arrivano in Centrale e viceversa, le facce dei pendolari, le solite facce viste per mesi e che si ripresentavano come uno spettro del passato-presente-futuro.
Allora capita che metti piede fuori dalla fermata “Missori” della linea 3 della metro, capita che mentre pensi solo a non farti investire dalla fiumana di gente, mentre sei proiettato unicamente verso il tuo compito, la tua piccola “missione lavorativa” quotidiana, mentre l’iPod sceglie per te la colonna sonora più appropriata per i tuoi passi, ti fermi. Ti fermi e capisci che ci sei cascato e riesci a dare un nome a tutto ciò: atarassia.
Per l’Epicureismo l’Atarassia è una particolare condizione in cui il soggetto si trova in completa “assenza di turbamento”: tanto le cose brutte della vita quanto quelle belle, in questa condizione, scivolano inesorabilmente sulla pelle di chi ne viene investito. Una sorta di giubbetto antiproiettile emotivo insomma.
Mi sono guardato attorno in cerca di conferme, non ricordo nemmeno quale fosse l’esatta colonna sonora di quel momento, io che faccio sempre caso alla musica, che la musica è importante, no non lo ricordo e per la prima volta so che non era fondamentale in quel momento. Mi è venuta in mente una persona, quella persona, quella che è stata con me per anni e soprattutto nell’ultimo anno. Quella che ho cercato di odiare, che ho aspettato e ascoltato e che tutt’ora sento come l’unica chiave di volta in grado di suscitare qualcosa dentro la mia distanza cosmica da tutto e da tutti.
Ho cercato di nascondere a me stesso, forse, tutto questo dietro ad un cumulo di principi, ma l’eccezionalità della persona che ho scelto senza volerlo, che ho scelto perché qualcosa in me con lei è scattato, qualcosa che con tutto il resto del mondo si inceppa inesorabilmente e mi fa sentire una persona a metà, è spunta fuori in una stupidissima via milanese, sotto un malandato ombrello che aveva la pretesa di difendermi dalle sferzate della pioggia irritante.
Questo mi spaventa, perché un potere così grande non so da dove derivi, non voglio neanche analizzare la cosa, quello che so è che tutte le cose, da quel fatidico “punto di rottura”, sono cambiate. E se da principio credevo di star meglio, a posto con la mia coscienza e consapevole di aver fatto tutto il possibile… queste sono solo stupide pseudo consolazioni quando in realtà ti accorgi che manca un gusto alle tue giornate, ti manca completamente la disposizione a lasciarti coinvolgere e avverti in te un’assordante superficialità di facciata.
Cammino allora, cammino lungo corridoi con luci al neon di un’azienda e cerco la mia immagine riflessa in un vetro, nelle porte della metro, nel buio di un finestrino di uno dei tanti treni. Mi cerco forse per rassicurarmi, per dirmi che ci sono, in qualche modo, che in qualche modo sono lì… anche se una gran parte di me non c’è.