Senso di pesantezza, diffuso e capillare. Come quando suona la sveglia, hai dormito magari dodici ore e sai che dovresti essere assolutamente riposato, invece hai delle cavigliere di piombo che rendono ogni tuo passo una piccola impresa contro la fottutissima forza di gravità. E’ strana la sensazione dell’avvertirsi così invischiati in qualcosa che non ha forma o sostanza, non riesci a palarlo al tatto eppure lo avverti, è lì e ti impedisce di compiere il più piccolo movimento. Volendo ti taglia anche un pò il respiro, volendo lo senti pulsare, la notte, mentre cerchi di prendere sonno e pensi “cambierà”.
Il problema, col tempo, è che speri sempre finisca per cambiare le cose, quando alla fine ti rendi conto che sta solo cambiando te, smussandoti come il vento e i cataclismi hanno modellato le cime delle montagne. Il reale problema è quando non lo avverti più, questo cambiamento: quando tutto quanto diventa un eco lontano di risate, battute, sguardi, suoni, odori e sensazioni. Non capisci bene dove sei finito, perchè ti senti isola anche in mezzo alle metropoli, anche in mezzo ai sorrisi che si spengono come sigarette la cui cenere viene portata lontano e di cui ti rimane il retrogusto del “c’è stato”.
Primo punto del personale promemoria per risalire dai dubbi: tornare a correre. Un imperat che, se sottoposto a dovere, diventa il passatempo lisergico con cui non vedi l’ora di trastullarti. Il tuo chiodo fisso, la tua dose quotidiana, la cazzo di droga che ti fa sentire bene per l’arco di una decina di kilometri. Uno stato di illuminata calma apparente che ti culla fra il fruscìo dei passi nell’erba alta, le storte nei sentieri mal battuti, l’odore del fango di cui senti le gocce appiccicarsi ai polpacci. La tua punteggiatura che, scandita dal cronometro che si erge ad unico ponte con il “mondo reale”, magicamente ritrova una sua fluida coerenza ma che ti porta anche, pericolosamente, lontano da tutto quanto.
Uno schiaffo in pieno volto sarebbe una sensazione positiva, magari generante un cambiamento. Cinque dita stampate su una guancia, quantomeno, ti direbbero qualcosa, se non altro il fatto che qualcuno, che non sei tu, ha deciso di piazzartele. Invece quando tutto svanisce, quando il cronometro emette il “bip” del tasto “stop”, quando improvvisamente tutta la grammatica dei tuoi muscoli e del tuo fiato va a farsi fottere, ti ritrovi davanti allo specchio, sudato, con gli occhi che ti scrutano quasi chiedendoti (o chiedendosi) “e adesso?”.