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27 Marzo 2012
VHS

VHS

Il risveglio. Non è quella la parte più difficile della giornata. Non per me almeno.
Fuori sento lo scorrere delle macchine, il camion dell’immondizia che alle 7.30 passa a raccogliere quel che deve raccogliere.
La parte più difficile della giornata è il primo passo. Il piede messo giù dal letto a due piazze ikea, che scricchiola in maniera sinistra mentre raccolgo le idee.

Sul comodino vedo: flacone di Xanax, fazzoletto di stoffa ridotto ad un’opera di arte post-moderna, abat jour, anche quella ikea. Anche quella, se possibile scricchiola a modo suo con la luce intermittente.
Il risveglio è sempre uguale, ogni mattina. Ma questa mattina lo è di più. Cerco punti di riferimento nella stanza, che mi convincano che sono esattamente nel mio appartamento. Sì. Che la giacca e cravatta gettate su una sedia sono le mie, sì. Del giorno precedente. Ottimo.

E quindi quel che è successo è successo realmente?
Aprite bene le orecchie e state a sentire.

Le rimpatriate con gli ex compagni del liceo mi han sempre un pò dato quell’idea stantìa che danno certi biscotti tenuti troppo a lungo nel classico barattolo di metallo, quello da biscotti. Appunto. Lo apri, a distanza di un pò di tempo, o magari anche solo il giorno dopo, e quei maledetti sono già in preda al molle decadimento che ti fa pensare “ma non erano proprio così”.

Quella sera mi aspettava una rimpatriata. Due giorni fa. Arrivo puntuale. Parcheggio. Piano piano la strada si popola di volti, di persone, di voci e di vite che vengono esibite, a mò di biglietto da visita. E io sto lì. Col mio, di biglietto da visita, in un comodo guscio esterno giacca-cravatta-pantaloni ben combinato ed assortito per trasmettere professionalità e sicurezza. Un bel travestimento da carnevale che se possibile ha accentuato le mie emicranie mattutine e i miei incontri settimanali con il Sergente. “Il Sergente” è il mio strizzacervelli. Lo chiamo così perchè. Beh, devo spiegarvelo o ci arrivate da soli?

Alla sera l’effetto dello Xanax inizia a farsi sentire meno. Resisto alla tentazione di buttarne giù uno mentre le mani sudate si aggrappano al flaconcino nella tasca. Con la destra saluto vecchie conoscenze, bacio vecchie guance e ostento la ferma solidità che si conviene a chi fa il mio lavoro: vendere assicurazioni. Con la sinistra do sfogo al nervo scoperto della mia inadeguata insicurezza e abbandonato il boccettino mi concentro a scavare con l’unghia una pellicina del pollice.

Tutto scivola poi via abbastanza velocemente, la cena, le chiacchiere fini a se stesse, la sceneggiata del mostrarci tutti interessati alle nostre vite, dieci o quindici anni dopo. Non so, sinceramente ho perso il conto. Neanche noto o faccio troppo caso al fatto che Corrado, per tutto il tempo, è seduto al mio fianco.
Ascoltate.

Corrado per i cinque anni di liceo è stato il mio vicino di banco. Vai a capire perchè. Dal primissimo giorno seduti uno di fianco all’altro con alterne fortune e sfortune. Potrei ora mettermi a raccontare qualche geniale trovata che ci possa riguardare. Invece vi dico che da quando abbiamo messo piede fuori da quel posto, semplicemente, abbiamo smesso di essere vicini di banco. Ma anche vicini in generale. Come se avessimo portato a termine il nostro compito e quindi, tacitamente, le nostre strade in comune dovessero finire lì. “Arrivederci e grazie, è stato un piacere viaggiare con te”. Cose di questo genere.

Finito il gran varietà commemorativo, Corrado si avvicina e mi propone di andare a berci qualcosa, dopo lavoro. Un aperitivo. “Passo io a prenderti quando stacchi da lavoro”. Rimango abbastanza colpito e di sasso.
La mia mente valuta se accettare l’invito o rimanere fedele all’impegno della lavatrice. Sì. Per i maledetti insicuri paranoici cronici come il sottoscritto, esiste l’ “impegno della lavatrice”. Fatevelo spiegare dal Sergente.
In questo caso vince la curiosità. Dico di sì. Corrado, vicino di banco, chissà perchè vuol tornare al suo posto. O forse no? In ogni caso accetto.

Arriva quindi un’altra sera. Che sarebbe ierisera. Opto per aspettare Corrado in uno dei localini del centro, di quelli così pieni da risultare ideali se si vuole sparire nel più completo anonimato. Quando lui arriva io ho già bevuto un Martini corretto con una pasticca delle mie. Solitamente non lo faccio mai, ma quest’incontro one-to-one mi genera una strana ansia che preferisco stroncare sul nascere.

Stretta di mano “Ci accomodiamo?” ci accomodiamo. E mi racconta di cose, mille cose. Di progetti che ha fatto, di progetti che sono andati a male. Una società tirata su e poi venuta giù. Lo fa con un piglio singolare, come a voler dare ad ogni suo concetto, con quell’enfasi, un valore fuori dal comune. Io, invece, rimango abbottonato, abbottonatissimo. Come mi ha spiegato il Sergente, riservo piccole gocce della mia personalità, quelle politicamente corrette e socialmente rassicuranti.

Mi chiede “Vuoi venire a cena da me? Ho invitato un pò di gente”.
Mi sento stordito. Prendere lo Xanax col Martini non dev’essere stata un’idea geniale. Mi immagino come potrebbe essere presentarsi in questo stato da un cliente. Dico “Sì volentieri”.

Il tragitto dal locale a casa di Corrado è fatto di curve paraboliche che si snodano verso l’infinito. Nella mia testa la linea tratteggiata di centro carreggiata diventa uno studio di funzione su un quaderno a quadretti, dove ad ogni calcolo sembra spezzarsi la mia matita. Gialla.
Arriviamo a destinazione e dopo aver aspirato a pieni polmoni l’aria fresca dal finestrino mi sento nettamente meglio e pronto a vestire un’altro sorriso di circostanza.

Ci apre la porta una donna. Anziana. Il mio sguardo interrogativo trova in Corrado una risposta: “Lei è mia nonna, non ti ho detto che vive con me?”.
“Ma certo mi era passato di mente” mento. Le stringo una mano “Buonasera signora”. Lei mi guarda di rimando dicendomi “Ciao Giulio”.
Come fa a sapere il mio nome?
Masticando questa domanda, che ha la consistenza di una gomma da masticare tenuta troppo tempo in bocca, entriamo nella sala da pranzo. E rimango a bocca aperta. Una parte di me vorrebbe fuggire. Immediatamente. Intanto le mie cellule surrenali partono, impazzite, ad immettere adrenalina sufficiente da far diventare la mia cassa toracica un concerto degli Einstürzende Neubauten.

Attorno alla tavolata di almeno cinque metri stanno sedute persone di vario genere. Ci sono dei ragazzini, vestiti come direttamente usciti dagli anni ’80, degli adulti, alcuni terribilmente vecchi. Ci sono addirittura un gruppo di adolescenti con le maglie dei Take That intente a sfogliare giornali datati. Sembra tutto un collage vivente di un trentennio, forse anche più.

Mi dice “Siediti, tranquillo” mentre tutti si girano, quasi ci stessero aspettando.
Io mi siedo senza dire una parola. Il cuore a mille, la sensazione di essere finito in una cazzo di trappola. La certezza che ci lascerò la pelle lì dentro.

Corrado spiega: “Loro sono le mie compagne delle medie, o meglio, alcune di loro, non sono potute venir tutte” indica le adolescenti-take-that. “Poi quello col cappellino è il tizio a cui portavo a riparar la bicicletta da piccolo, c’è anche il controllore che incontravo tutti i giorni sul pullman tornando da scuola…” con la voce calma e normale continua ad ammassare davanti al mio piatto nomi, persone, ruoli. Tutta gente che non ha senso stia lì attorno ad un tavolo, tutta gente che sembra rapita con violenza da un contesto lontano.

Iniziamo a mangiare. Un chiacchiericcio sommesso in cui piano piano torno a fare quel che mi è sempre riuscito alla grande: isolarmi. E’ semplice scivolare fra le pieghe dei discorsi, quel tot sufficiente far sentire ogni tanto la propria presenza. Quel che basta per far capire che non si è troppo distanti, mentre testa e anima, ammesso ce la si abbia, fuggono lontane. Corrado si intrattiene con tutti e quasi si dimentica di me. Bevo il vino nel bicchiere e non tocco un pezzo di cibo.

Quando mi sento abbastanza distante da avvertire il cuore tornare, lentamente, a rallentare, una mano mi riporta in quella stanza. Come a volermi dire “sei sveglio?”
“Tutto bene Giulio?” è la nonna. Quand’è che è finita seduta accanto a me? Osservo rapidamente la situazione. Occupa il posto di Corrado, lui è lanciato in una discussione con le adolescenti. Pare un ragazzino pure lui.
Deglutisco un macigno.

Dico. “Certo Signora, sono solo un pò stanco e poco abituato alle cene” indugio. Non indugiare. Idiota “..affollate”. Bene.
“Capisco” il suo sguardo si posa su Corrado. “Ne sono passati di anni, da quando eravate vicini di banco”
Scaccio in un angolo della mente tutte le domande che solleva la sua considerazione. Presente. Devo essere presente e pronto “Eh… gli anni passano per tutti”.
“Il mio Corrado, ha avuto tanti travagli”
“Mi ha raccontato delle fortune e sfortune col lavoro, mi spiace, ma lo vedo bene ora… di cos’ha detto che si occupa? Di video vero?” riesco ad essere anche affabile.
“Già i video” aspira un tiro da una sigaretta. Quando l’ha accesa? “I video sono diventati la sua fissazione, ho dovuto stargli dietro, ho dovuto evitare che andasse troppo oltre. Già così i risultati mi sembrano notevoli”
Quella parte di me terrorizzata viene sovrastata dalla curiosità “Non ci vedo niente di male, mi ha detto aver seguito un corso, non ho mai visto nessuno dei suoi lavori ecco”
Mi guarda spegnendo la sigaretta. Quando cazzo ha finito quella sigaretta? “Giulio i corsi non sono male, se questi non vengono tenuti dai tuoi genitori morti, possono diventare un’ossessione. Immagino non te ne abbia parlato. No dalla tua faccia si capisce che non te ne ha parlato, è comprensibile” sposta lo sguardo su Corrado. “Cinque anni fa ha perso entrambi i genitori, non mi chiedere come sia possibile, ma poi Corrado se n’è uscito con un baule, ritrovato in cantina, pieno di vecchie VHS. In cui loro spiegavano queste particolari tecniche di montaggio e produzione video. Non lo so io non ne capisco molto.”

Annuisco. Qualcosa di freddo mi sale lungo la colonna vertebrale. Le gambe si paralizzano. E’ un maledettissimo terrore che mi pervade. Cerco di rimanere fermo. Cerco di rimanere saldo. Cerco di rimanere lì. Con lei che mi guarda. I capelli un tempo dovevano esser rossi, qualche punta è rimasta. La luce negli occhi mi da la sensazione di un dejà vu. Mentre con lo sguardo cerco delle risposte, lei annuendo sembra quasi dirmi “sì, è esattamente così”.

Osserva il mio piatto e socchiude gli occhi. Poi con decisione mi dice “Credo tu ora debba andare”.
La guardo come un bambino di due anni, insicuro se il prossimo passo lo terrà in piedi o lo farà cadere e mi faccio guidare attraverso la casa, fino alla porta. Corrado è perso nei discorsi e non bada a quel che sta capitando.

Io non so cosa dire mentre quel volto appare sempre più un volto noto. Mi dice “torna a casa e cancella il suo numero, non tornerà a cercarti”. Io riesco solo ad annuire. “E non tornare da queste parti, guardami, lui e la sua fissazione dei video. Io sono stata la prima”.

Buio. E’ mattina. Risveglio.
E’ stato un sogno o è successo veramente? Il primo passo. Ho bisogno del primo passo della mattina.
Il piede a contatto col pavimento. Il pavimento che risponde senza traumatizzarmi subito la giornata. Quello sguardo di lei. Quello sguardo mi ricordava qualcosa. Possibile? Sarà stato un sogno.

Per scrupolo vado a sfogliare un annuario, anno duemila-zero-zero. Rimango di sasso. Quello sguardo. Claudia. Capelli rossi. La ragazza del liceo. La ragazza di Corrado.

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