Ok allora, senza troppi preamboli: questo libro l’ho trovato bellissimo. Palla al centro, ricominciamo da capo. Iniziare una recensione con dichiarazione di intenti esplicita, in questo caso, è assolutamente d’obbligo. Questo principalmente perché Margaret Atwood è riuscita non solo a stupirmi ma in qualche modo anche a superarsi, lasciandomi una miriade di sensazioni contrastanti alla chiusura del suo romanzo distopico da cui è stata tratta una serie TV (che devo ancora vedere): Handmaid’s Tale.
Lasciamo, quindi, l’autrice dai toni eccentrici e ironici (anche nel descrivere le situazioni più pesanti) della trilogia di MaddAddam, teniamo buoni i temi del femminismo (o più che altro della figura della donna) e buttiamoli in una dimensione nuova; quella di un mondo che vede stravolti tutti i canoni di “normalità” che conosciamo, per precipitare in un’epoca cupa.
Il termine “Cupo” è ciò che meglio si addice all’intero romanzo. Mi sono immaginato tutte le scene e le vicende raccontate dall’Ancella protagonista, come un lunghissimo film con i colori desaturati e virati verso il grigio. Siamo negli Stati Uniti, dopo un apparente colpo di stato che ha portato al potere una congrega di bigotti puritani. La libertà è sospesa, le donne sottomesse agli uomini e, in alcuni casi come per le Ancelle, ridotte a semplici contenitori per garantire la procreazione della specie.
L’Ancella racconta un presente opprimente su cui si affacciano come squarci in una tenda di catrame, bagliori di un passato lontano, un passato che ferisce la protagonista riportandola ad affetti veri, sensazioni fisiche ed emotive sincere e non anestetizzate da una mente che per autodifesa agisce ogni giorno col principio del distacco, dell’osservazione rassegnata. Speranza è una parola pericolosa, come braci incandescenti sotto un fitto strato di cenere che è bene controllare per non far divampare un incendio.
Difred (nome fittizio della protagonista, che come tutte le ancelle prende il nome dell’uomo a cui è “assegnata”) diventa Ancella perché non ha altra scelta rispetto alla morte, una morte che sempre più si trova a desiderare, oppressa dalle immagini di suo marito Luke e della figlia che gli è stata sottratta per il tentativo di fuga dal regime.
La cosa che colpisce del racconto della Atwood è l’universo scuro come una notte senza stelle che dipinge con ogni frase e riflessione della sua protagonista, un senso di oppressione che si trasmette al lettore facendolo identificare con la protagonista-narrante. Perché non si tratta più solo di una differenza di genere, ma di sentimenti, di sensazioni umane che possono essere interiorizzate da tutti.
Insomma il libro è molto bello, scritto bene, con tantissime frasi da sottolineare e ricordare e direi che non c’è molto altro da aggiungere, anzi chiuderei con una citazione dell’Ancella, rivolta a Dio in preghiera:
Per il Paradiso abbiamo bisogno di Te. L’Inferno ce lo possiamo fare da soli.