Ammetto che nella mia ignoranza abissale, quando sento parlare di letteratura russa mi vengono sempre in mente Dostoevskij, Tolstoj, Cechov e tutta l’allegra brigata dei ragazzi/e della “Compagnia dell’URSS”. Distinguibili da quelli/e della “Compagnia delle Indie” sicuramente dalla fragranza del bagnodoccia. Con candida onestà, quindi, ammetto che davanti al libro dei fratelli Strugackij sono stato più attirato dal titolo che da una qualche idea consapevole sul dove stessi andando a cacciarmi.
Non ricordo nemmeno come abbia scelto di aprirlo, questo libro. Perché a differenza di come quasi sempre mi capita (tranne che per alcuni fidelizzatissimi autori) non mi sono manco letto mezza sinossi, due righe di presentazione, uno sputo di “captatio benevolentiae”. Niente. Il titolo, due russi e la domanda “ma come si scrive un libro a quattro mani?”. Evidentemente la risposta degli Strugackij è “bene, direi bene”, perché a giudicare dal risultato finale “È difficile essere un dio” lancia fin da subito una suggestione veramente molto molto “prokhladnyy” (secondo Google vuol dire “cool” in russo).
Siamo negli anni ’60, nel pieno della Cortina di Ferro. Più precisamente dalla parte orientale della cortina, ovviamente. E cosa pensano i due fratelli? Di diventare dei capisaldi della letteratura russa del genere sci-fi, sfornando una serie di romanzi fra cui questo. Ora, voglio essere franco e sincero, per parlare di “È difficile essere un dio” non è possibile evitare un minimo spoiler. Piccolissimo, chiariamoci, però assolutamente necessario.
Nella visione distopica di questi fratelli del destino, sulla terra si è compiuto il comunismo, le genti sono tutte felici e vivono in pace. I conflitti sono relegati al passato, la bramosia sfrenata del potere è un impulso morto e sepolto e quindi sto benedetto genere umano deve trovarsi qualcosa da fare per occupare in maniera costruttiva i weekend. La soluzione a questo vuoto cosmico di tv spazzatura e polemiche da bar porta a far sì che si arrivi a guardare in là, sempre più in là, fino ad arrivare ad un bell’esopianeta in cui una copia aliena del genere umano si trova, nella sua evoluzione storico-scientifico-economica a livello del Medioevo.
Ecco che allora si costituisce un organismo di studiosi, di storici, che inviano emissari umani sul pianeta per studiare “live” l’evoluzione delle civiltà presenti su questo pianeta. Gli emissari terrestri piombano nella realtà nascondendosi e mimetizzandosi all’interno delle genti, documentano tutto in maniera altamente voyeuristica con una sorta di diadema-proto-google-glass e in generale i due Strugackij, assieme al loro protagonista Anton AKA “Don Rumata”, si interrogano sulla ricorsività della storia, su come sia difficile venire dal paradiso, ridiscendere nell’inferno della grettezza umana e provare ad uscirne indenni. In pratica un po’ come quando mi piglia quell’immotivata voglia di azzeramento neuronale e guardo una puntata di Temptation Island.
Scherzi a parte, Anton è sicuramente un personaggio interessante così come l’idea di questi osservatori lanciati nell’iperspazio a farsi i cazzacci di una civiltà che ancora aspetta arrivi un Galileo da perculare. Perché mi ha riportato alla mente delle sensazioni molto simili al bellissimo “Un cantico per Leibowitz“, in cui emerge fortissima, come un manrovescio in un contest di “schiaffo del soldato”, la consapevolezza di come il genere umano tenda a fare gli stessi errori, ricadere puntualmente nelle stesse dinamiche diventando di fatto l’essere nel contempo più stupido e più geniale nella storia di un qualsivoglia pianeta.
In questo i fratelloni Strugackij centrano in pieno l’ars narratoria dello sci-fi anni ’60: quello sfrontato mettere davanti al lettore universi futuribili per farlo interrogare sulla propria realtà. Ed è emblematicamente bello il fatto che quegli interrogativi, sollevati nel 1964 all’uscita di questo libro, siano ancora in grado di parlarci oggi, nel 2025, mentre fra una sagra di influencer e l’altro sono qui a domandarmi se non ci stiamo avvicinando ad un nuovo medioevo, questa volta digitale.
Quindi bravi, bravi fratelli, però matitina rossa pistina, anzi pistinissima, su un paio di cose. In primis il fatto che avete tirato giù un’idea fighissima e poi me l’avete fatta un po’ dimenticare. Mi spiego meglio: bello il fatto di questi osservatori gettati nella storia, bello il contorno, le contraddizioni vissute dal protagonista, i personaggi. Però mi avete raccontato poco delle origini. Perché questi fanno questa cosa? Nel paradiso comunista sono arrivati i reel di Instagram e si sono rotti le palle dei balletti tutti uguali? Anche lì l’umanità è diventata un sotto prodotto Pavloviano di stimoli e reazioni? Insomma, volevo saperne di più.
Seconda cosa: il finale. Molto misterioso, molto tutto. Ma anche lì perché questa mancanza di dettagli? Volevo un briciolo di catarsi e invece sono qui a farmi domande sui massimi sistemi. Un momento, forse volevate esattamente questo?