L’avevo detto e una parola è debito: nonostante il primo capitolo della trilogia di Justino mi avesse lasciato ben più che perplesso, ero e sono fermamente deciso a chiudere il cerchio di tutta questa faccenda dell’umanità trasformata in vampiri perché la ricerca dell’elisir di lunga vita finisce sostanzialmente un po’ “a schifìo”.
“I dodici” è il secondo libro che si pone davanti a me e il mio, ormai l’ho compreso pienamente, un po’ autolesionista obbiettivo. Perché? Perché purtroppo tutte quelle che erano le perplessità cresciute come gramigna nel mio senso di lettore esigente, non solo si sono confermate tutte quante, ma si sono anche moltiplicate a dismisura portando il livello di cascamento di braccia, in alcuni passaggi, direttamente proporzionale all’innalzamento del livello di latte alle ginocchia.
Insomma quel particolare incrocio osservabile solo in alcuni contesti veramente particolari, in cui il fenomeno naturale di una trama magari anche potenzialmente piacevole viene costantemente minata da un intrecciarsi di eventi improbabili e ripetute coincidenze, spacciate per fortuite, che a lungo andare vengono giustificate sempre più con la classica scusa del “il cane mi ha mangiato il foglio delle situazioni plausibili, lo giuro le avevo, ma niente alla fine mi son messo a ravanare nell’ovvio”.
Cosa mi dice questo romanzo? Niente. Mi dice che Cronin ha presumibilmente nella sua testa una bella storia epico/fantasy/cavalleresca, spacciata per horror perché ci sono degli pseudo vampironi capaci in alcuni casi di essere molto pucciosi e sangue, ovviamente. Molto sangue un po’ a caso, un po’ per fare scena, un po’ come quando vedi quelle scene anni ’80 in cui a qualcuno viene mozzato un arto in quella maniera così artefatta da risultare quasi comica.
Il “core” dei personaggi, ovviamente, è quello del libro precedente e l’inizio ad effetto del dirti subito che alcuni di loro non ci sono più, o presumibilmente non ci potrebbero più essere (non si sa, dai forse non è così, occhiolino, hai capito lettore? occhiolino) fa scattare subito il miglior colpo ad effetto che il buon Justino ha dimostrato saper maneggiare con dovizia e maestria: il famoso “se telefonando” effect. Quello per cui cercando di alimentare nel lettore una sorta di disorientamento, davanti alla sorte di un qualche personaggio, in realtà sta già dando, nel presentare gli eventi, tutti gli elementi che ti fanno capire con precisione chirurgica dove andrà a parare. Ed è un peccato. Dico sul serio. Alcune situazioni vengono anche orchestrate benino se non fosse che, come in una soap opera, sai già che il maggiordomo sarà il colpevole mentre la domestica è ingiustamente accusata e il belloccio si dovrà fare minimo tre mesi di ospedale ma poi ne uscirà fuori grazie alle sue due lauree e tre matrimoni di cui uno, probabilmente, dimenticato nel bidone dell’umido.
Cronin sceglie di pigiare fortissimo su un pedale che finisce per levare, ancora una volta, quel briciolo di credibilità narrativa che ogni romanzo, seppur di fantasia, dovrebbe avere. È come se ogni tanto emergesse a dirci a gran voce “regaz, easy tanto lo sappiamo tutti che alla fine questa è una storia no?”. Certo che lo sappiamo, ma così mi fai pensare di essere una di quelle persone che quando raccontano una barzelletta poi te la vogliono spiegare. Per dio!
Questa grossissima piaga si estende come una macchia di quelle che non riesci a levar via manco a novanta gradi su tutto. Sui personaggi, sulla scelta di fare avanti-indietro con dei feedback che cercano di farti capire come il grande cerchio della vita ci porti ad avere tutti, ma proprio tutti, i suoi protagonisti collegati da eventi che spaziano da rapporti di parentela alla “mio cuggino mio cuggino” a veramente improbabili e ripetute “butte di culo”. Tecnicamente non mi viene altro termine per spiegarle.
Insomma a mio modo di vedere Cronin esagera. Decisamente. Avevo capito nel primo libro essere uno di quelli che si innamora dei propri personaggi principali. E ci sta, per quanto come detto lui lo faccia diventare un limite. Ma qui si va oltre. Qui la sua necessità si estende anche a quei personaggi secondari che ti dipinge su due piedi e che vuol includere a tutti i costi in quel finale effetto di mix totale di ricongiungimenti improbabili alla “c’è posta per te” VS “carramba che sorpresa”. Mancherebbe proprio solo una buonanima della Carrà, sul finalone, a dire con veemenza “andrà tutto bene amici lettori!”.
In questa tornata, in ogni modo, a mio modesto parere la situazione globale che aggrava il mio giudizio sul lavoro di Justino è portata dal fatto che oltretutto sceglie di buttare dentro una pletora di personaggi abbastanza improbabili, che fanno cose abbastanza improbabili che però, nel momento in cui li introduce, sai già saranno votati esattamente per quello scopo. Ad esempio sai già che il ragazzone con ritardo mentale sarà quello che prenderà la decisione che salverà tutti. Lo sai. Sai già che l’ennesima ragazzina che viene descritta con le movenze con cui descrive TUTTE le stramaledette ragazzine del libro, dopo aver passato tre capitoli a ribadire che ha diciott’anni, finirà per finire a letto con qualcuno. Lo sai. Te lo sta praticamente dicendo. Ed è un po’ noioso. Per voler essere carini.
Per il resto il libro si fa leggere, perché è un blockbusterone di quelli old school, ottimi per staccare il cervello e passare del tempo senza farsi uscire il sangue dal naso. Però, ancora una volta, non me lo paragonate ad altri giganti della letteratura di genere. Davvero. Ve lo chiedo in maniera anche io telefonata.